di Giulio Spini Sondrio, Bissoni 1973. |
Campo Tartano, 1 maggio 1921 – Morbegno, 24 agosto 2009: due luoghi e due date che racchiudono l’arco di un’intera esistenza. Quella di Giulio Spini, uno dei pochi grandi intellettuali del Novecento nella piccola provincia di Sondrio. Un uomo che ha svolto, in tutta la sua vita, un’attività intensa, in particolare nel campo della politica e in quello dell’insegnamento. Uno studioso instancabile (ho sempre pensato che la sua giornata dovesse avere un tempo sconfinato), teso all’approfondimento rigoroso di qualunque problema si manifestasse nella sua area di indagine, dotato di una lucida abilità dialettica, saggista apprezzato e pubblicista brillante. Una vita, la sua, contrassegnata da scelte di grande rilievo. Poco più che ventenne è un capo partigiano con il nome di Vezio nella guerra di liberazione (molti anni più tardi sarà tra i promotori dell’Istituto sondriese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea); tra i fondatori della Democrazia Cristiana valtellinese (segretario provinciale nel giugno del 1948); sindaco di Morbegno dal 1964 al 1975; presidente della Comunità montana della Valtellina (di tutta la Valtellina) nel 1977; direttore per molti anni del Corriere della Valtellina, il periodico che per decenni entrò nella maggior parte delle famiglie valtellinesi diventandone l’appuntamento settimanale imperdibile. Ma queste, in rapidi cenni, sono soltanto alcune fra le tappe salienti della sua vita lunga e operosa. Certo, questa non può essere la sede per una analisi molto approfondita della sua vasta attività, né ciò sarebbe possibile in poche righe. La sua è stata una presenza stimolante in ambito provinciale e cittadino, sulla stampa locale e nei pubblici dibattiti. Si batteva sempre con tenacia e con vigore per le cose in cui credeva. Questo articolo vuole ricordare la vita di una persona coraggiosa, di uno spirito libero, ricco di un’intelligenza acuta e di una cultura enciclopedica, tormentato da una curiosità e da una voglia di conoscere a fondo insaziabili (qui numquam quievit, quiescit = instancabile, ora finalmente può riposare – era scritto come epigrafe sul manifesto che ne annunciava la scomparsa. Una ripresa appropriata dell’iscrizione incisa sul sarcofago di Gian Giacomo Trivulzio, il famoso condottiero del Quattrocento, sepolto nella basilica di San Nazaro a Milano). La sua è stata un’esperienza umana eccezionale, fondata sulla dedizione alla famiglia – l’amatissima moglie Giulia e i sei figli –, sullo studio e su una grande disponibilità di servizio verso la comunità. Intanto, anche nella mia vita, l’incontro – sotto diversi aspetti – con quest’uomo eccezionale ha avuto una rilevanza non marginale. L’ho scoperto la prima volta nel 1975. Avevo deciso di affrontare le prove per il concorso come direttore della biblioteca di Morbegno – un’istituzione da lui fortemente voluta – e, tra le materie d’esame, spiccava la storia locale. Qualcuno mi suggerì di studiare, per questo, il Mazzali–Spini. Erano chiamati così, in una sintesi efficace, i tre volumi, allora freschi di stampa, dedicati alla Storia della Valtellina e della Valchiavenna. I primi due erano stati scritti da Ettore Mazzali, mentre il terzo – che affrontava il periodo della nostra storia a partire dalla fine del Settecento, con la Repubblica Cisalpina e si spingeva fino alla proclamazione del Regno d’Italia nel 1861 – era opera di Giulio Spini. Fu proprio questo volume che mi permise di superare agevolmente un ostacolo. Ricordo infatti, come fosse oggi, la commissione d’esame – Virginia Vanoni, Lina Vitali, Angelo Daccò, Gianmaria Villa e altri – schierata dietro un lungo tavolo in quella che oggi è la Sala giunta del Comune di Morbegno. E fu la prof. Lina Vitali che mi chiese di parlare del Risorgimento in Valtellina. Beh, proprio grazie al lavoro di Giulio Spini fui in grado di cavarmela senza problemi.
Giulio Spini
Approdati a questo punto, alcuni dei miei pazienti lettori staranno chiedendosi: “Eppure questo articolo mi pare di averlo già letto!”. È vero, finora si è trattato della ripresa quasi integrale di un contributo – dedicato alla figura e all’opera di Giulio Spini – pubblicato alcuni mesi fa su Morbegno, il bollettino comunale. Da questo punto in poi, invece, prende le mosse qualcosa di inedito. Un’indagine accurata su un libro che Giulio Spini ha dedicato alla storia della provincia di Sondrio. Un saggio dato alle stampe quasi quarant’anni fa, per la precisione nel 1973, che resta ancor oggi il testo più autorevole e completo per uno studio della storia della Valtellina tra la fine del Settecento e il 1859. Si tratta del volume Dalla Cisalpina al Regno d’Italia, il terzo e l’ultimo della Storia della Valtellina e della Valchiavenna. E proprio questo rappresenta l’ottavo libro che consiglio di collocare sullo scaffale dove devono trovare spazio i 15 testi fondamentali – a parer mio – per studiare la cultura della provincia di Sondrio. È un’opera che, tra l’altro, dimostra l’eccellenza di Giulio Spini nel districare – con un linguaggio lontano mille miglia dall’ “accademichese” (per intenderci, quella infelice scrittura ricca di termini come gestire, approcciare, nella misura in cui; quella che si spinge a definire chi non riesce a camminare come “non deambulante” … ) – quei nodi aggrovigliati e quegli avvenimenti complessi, che spesso confondono e tormentano gli studenti e, perfino, gli studiosi. E lo fa in modo apparentemente semplice, indagando e sciogliendo con chiarezza (ed è solo un esempio tra i molti) il frequente interrogativo:“Come mai non siamo diventati Svizzeri?”. Anche lui – come Bruno Credaro (basterebbe rileggersi le sue monografie pubblicate dalla Banca piccolo credito valtellinese negli anni Cinquanta) Sandro Massera e Saverio Xeres (maestri, questi ultimi, nel tratteggiare in modo limpido lo svolgersi degli avvenimenti della Valtellina durante la guerra dei Trent’anni) – ha il dono di presentare con disarmante nitore i momenti più caotici della nostra storia. Non voglio, però, rimanere nel vago. Con un numero adeguato di citazioni – in una specie di itinerario che seguirà il tracciato della storia a partire dagli ultimi anni del Settecento fino al 1859 – cercherò di far conoscere la peculiarità del suo scrivere di storia.
Che il suo stile sia tutto meno che noioso lo possono già dimostrare le prime tre brevi citazioni.
Siamo nel 1797, il periodo turbolento della Repubblica Cisalpina. I numerosi e frenetici incontri tra i delegati valtellinesi e quelli francesi della Cisalpina vengono così tratteggiati
(…) l’agitato itinerario diplomatico di quel fine settembre [1797] (p. 27).
E quando viene a parlarci del generale Comeyras, riesce a descrivere le sue tresche come
questa piccola astuzia da favola esopiana (p. 32).
Di tanto in tanto il nostro autore lascia cadere nel racconto solenne della storia una piccola perla. Come definire diversamente la sua pennellata che disegna la Valtellina e la Valchiavenna come
due valli contadine, rughe tagliate fra le montagne (p. 137).
Tuttavia non è maestro soltanto nel periodare sintetico. Ecco, ad esempio, per chi ama il fraseggio più complesso un brano, in cui dimostra la sua padronanza di una serie spericolata di incisi. La Valtellina è finalmente entrata a far parte di un modo nuovo: la Repubblica Cisalpina.
Una regione tutta municipalistica [la Valtellina], abituata a una notevole autonomia comunale, tutta rivolta ai problemi concreti del vivere quotidiano, alle prese con l’asprezza del lavoro, con l’incertezza delle annate agricole, e sotto l’incubo delle calamità stagionali o delle epidemie, con un commercio ridotto al minimo indispensabile, in lotta coi balzelli e le limitazioni propri a un territorio subordinato, con l’unico orizzonte culturale della religione cattolica, articolato in istituzioni parrocchiali secolari e fiorenti, fu in brevissimo tempo risucchiata in un mondo politico tutto nuovo e invadente (p. 36).
Continuiamo a percorrere l’itinerario della storia.
Con il 1805, finalmente, le due valli dell’Adda e del Mera diventarono Dipartimento ed ebbero una prefettura (…) Il Dipartimento dell’Adda, come allora si chiamò, operò l’unificazione amministrativa del territorio valtellinese, riunì le due valli maggiori, risolvendo d’autorità le incerte propensioni dei chiavennaschi fra Valtellina e le zone rivierasche del lago di Como, e fissò un profilo istituzionale destinato a durare, nella sua cornice essenziale, fino ai giorni nostri (p. 60–61).
Ma è con il Congresso di Vienna che la piccola e periferica Valtellina verrà precipitata nel vortice della grande storia europea. Al mitico Congresso – per la provincia di Sondrio – partecipano due delegati: Diego Guicciardi e il chiavennasco Gerolamo Stampa.
I due valtellinesi arrivarono a Vienna verso la metà del settembre 1814 e vi rimasero fino alla primavera inoltrata del 1815, quando la Valtellina fu dichiarata inserita nel Regno Lombardo Veneto. (…) Durante il soggiorno si incontrarono due volte con il Metternich, due volte con l’imperatore Francesco e una con il Talleyrand. (…) [Il Guicciardi] giocò su una carta sola: quella dell’Austria e del suo tornaconto (…) Agli austriaci fece notare il vantaggio, per l’impero Asburgico, di poter controllare una frontiera, come quella valtellinese, che, se fosse stata svizzera, sarebbe potuta diventare facile rifugio ai disertori e luogo di contrabbando (pp. 85–86).
Ma ci fu un momento in cui, al Congresso di Vienna, si pensava di restituire la Valtellina ai Grigioni (le Tre Leghe), proponendola come IV Lega. Un’altra ipotesi, che venne presa in seria considerazione, fu quella di assegnare la Valtellina all’Austria, mentre Chiavenna e Bormio sarebbero andate con i Grigioni. Ogni nodo, tuttavia, verrà sciolto il 15 aprile 1815, con il proclama del conte Bellegarde, che ordinava l’aggregazione della provincia di Sondrio alla Lombardia austriaca.
Ma intanto, ora che la nostra provincia era tornata dopo secoli in area lombarda, come appariva al viaggiatore che da Milano si fosse spinto fin quassù? Che la situazione fosse drammatica, lo troviamo in un brano a p. 98, tratto da Viaggio in Italia: regno Lombardo–Veneto, scritto da Francesco Gandini nel 1833.
Passato Colico, va angustiandosi la Valle, e il viandante sente al cuore passione vedendo gli abitanti in grossi pannilani, larghi feltri al capo, sucidi i più e graveolenti, mostrar aspetto di tristezza nei gozzi, nelle facce smunte, nelle rughe d’una anticipata vecchiezza. Anche lo squallore della scena naturale fa brutto contrasto alla bellezza dei luoghi del Lago di Como.
Ma, qual è il giudizio formulato da Giulio Spini sul Regno Lombardo–Veneto in Valtellina? Lo troviamo, articolato e definitivo, a p. 146. Tuttavia, già a p. 106, ne abbiamo una seppur parziale anticipazione:
Nelle opere pubbliche e, soprattutto, nelle costruzioni stradali il Lombardo–Veneto lasciò nella provincia di Sondrio l’impronta più duratura e senza dubbio una favorevole testimonianza di sé. Mai si era dato luogo in Valtellina e in Valchiavenna a un programma così vasto e così dispendioso di lavori.
L’affresco storico trova, poi, tra i suoi protagonisti i parroci. Giulio Spini, con un discorso convincente, li individua come rappresentanti fondamentali della cultura in Valtellina.
Ogni parrocchia, da secoli, era l’unico centro culturale contadino e il parroco era, in termini moderni, I’intellettuale, fornito di studi superiori, che viveva in mezzo ai contadini e ne organizzava, attorno alla chiesa, la vita sociale, quasi sempre articolata in confraternite e compagnie. Le cerimonie del culto erano anche manifestazioni d’arte e di folclore e i contadini, per secoli, poterono fruire della pittura, della scultura, della musica soltanto nella propria chiesa. Ognuna delle 512 chiese era stata costruita da loro, in grandissima parte, con offerte di danaro o di lavoro e rappresentava anche la storia delle comunità, gli “antenati”, le tradizioni locali più antiche. Quando si parla di ambiente culturale della Valtellina e Valchiavenna, è necessario riflettere sulle relazioni strette che si crearono e resistettero, nel cuore delle comunità popolari più periferiche e remote, fra l’organizzazione ecclesiastica e gli strati contadini, aiutati a vivere in mezzo a fatiche e a stenti da una concezione del mondo e della vita, la sola ad essere loro impartita. Durante il Regno Lombardo–Veneto, I’Austria cercò di legare la propria impalcatura politica a quella ecclesiastica, facendo del parroco un funzionario dello stato civile, mettendo l’insegnamento della religione nelle scuole come una delle materie principali, convertendo alcuni precetti canonici, come il digiuno ecclesiastico e il riposo festivo, in leggi statali e assumendo la morale cattolica come morale pubblica. A ciò si aggiunse la funzione didattica soprattutto nelle scuole elementari, che in Valtellina furono quasi esclusivamente dirette e tenute dai preti, soprattutto nei paesi e nei villaggi. Soluzione che, se soddisfaceva i burocrati imperiali, permetteva la diffusione dell’istruzione elementare ad un costo molto inferiore a quella svolta da insegnanti laici (…) (p. 126).
E poco più avanti, Giulio Spini trova perfino il tempo di inserire un giudizio sulla produzione letteraria risorgimentale.
Ebbe in seguito molta diffusione lo “scherzo poetico” di Giovanni Visconti Venosta, “La partenza del crociato, per la Palestina”, scritto nell’autunno del 1856, per uno studentino di ginnasio a Como, che doveva fare un componimento poetico sull’argomento. Il protagonista, Anselmo, svolge la sua guerriera vicenda in una ballata comica di 15 quartine di ottonari, riuscendo a dissacrare bonariamente con respiro letterario non provinciale, non si sa bene se le crociate o i programmi scolastici o le une e gli altri. Che risulti, è l’unico prodotto letterario di un poeta valtellinese, di tutto quel periodo, che sia entrato nella storia della letteratura italiana e nelle antologie (pp. 130–131).
Seguono una decina di pagine (a partire da p. 134), dove viene illuminata la drammatica situazione economica e sociale della Valtellina nel XIX secolo: il cretinismo, le epidemie, le case misere, l’emigrazione …
E quando Giulio Spini deve esprimere dei giudizi su momenti avvenimenti e personaggi, anche su quelli entrati nella mitologia risorgimentale, non si nasconde dietro fumose elucubrazioni. Pronuncia le sue valutazioni più severe sempre al termine di un esame profondo e documentato.
Vediamone alcuni, iniziando proprio dal giudizio sul governo austriaco:
Quale giudizio storico si può dare del Regno Lombardo–Veneto, per quanto riguarda la provincia di Sondrio. (…) un giudizio di tale natura non può delinearsi che da un raffronto [e il raffronto è con la fase napoleonica e con il precedente governo grigione]. Il Regno Lombardo Veneto pose fine alle incertezze sul destino delle due valli, saldò i conti rimasti in sospeso con i grigioni, sostituì con un ordine amministrativo e giudiziario un insieme di consuetudini prive della forza necessaria per liberarsi dagli interessi particolari e per evolversi secondo le direzioni suggerite dal rinnovarsi della cultura giuridica e politica dell’Europa. In questo senso, nel senso cioè di un aggiornamento delle istituzioni pubbliche, il dominio austriaco proseguì l’opera iniziata dai francesi, modernizzò gli apparati burocratici, diede alla provincia l’impronta tipica dell’efficienza asburgica, prodotto innestato sul dispotismo, ma tale da resistere alla caduta di esso come esperienza non tutta negativa. Sotto l’ombrello paternalistico della burocrazia lombardo–veneta, i terzieri e i contadi della Valtellina e della Valchiavenna si fusero in provincia, diventarono tutti, si può dire allo stesso modo, distretti di un potere centrale, lasciando cadere le barriere municipalistiche che si erano andate frapponendosi fra gli uni e gli altri durante i secoli. In realtà la Valtellina fu unificata del tutto dall’amministrazione lombardo–veneta dopo il primo colpo inferto ai particolarismi dal regime napoleonico. E la Valchiavenna fece la sua scelta fra la zona comasca e Sondrio (…) i tempi erano maturi per l’unificazione amministrativa ed economica delle due valli e il centralismo burocratico lombardo–veneto la sollecitarono, sia pure dall’alto (…). Un progresso innegabile si realizzò nei collegamenti stradali con la Lombardia, con la Svizzera, con l’alto Adige e con la Valcamonica.
Quindi, in fin dei conti, il parere di Giulio Spini sul Regno Lombardo Veneto è di segno favorevole.
Tenuto pur conto di tutti i fattori negativi … il bilancio, in prospettiva storica, non fu per la Valtellina disastroso (…) (p. 146–147).
Prima di passare ad altri due altri giudizi (quello pungente su Giuseppe Mazzini e quello, più comprensivo, sul comportamento degli abitanti di Morbegno), leggiamo cosa scrive Giulio Spini quando deve confrontarsi con uno dei grandi interrogativi, che tra l’altro sono di stretta attualità, proprio ora che ci avviciniamo a grandi passi alle solenni manifestazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
Qual è stato l’atteggiamento della popolazione valtellinese nei confronti del Risorgimento?
Il Risorgimento, come rivoluzione nazionale, non coinvolse vari strati popolari e non poté, quindi essere fatto proprio dal mondo contadino valtellinese, in cui anche l’appello di Mazzini doveva superare barriere economiche, sociali, culturali troppo alte e resistenti. È inutile dire, tanto è noto, che il mondo contadino fu la vittima di questa indifferenza relativa – rotta forse soltanto dal passaggio di Garibaldi – perché dovuta a secolari condizioni di vita, come Francesco Visconti Venosta e Stefano Jacini, prima ancora di Luigi Torelli, avevano documentato con onesta aderenza alle cose, e con lungimirante denuncia (p. 155).
E, verso la conclusione del nostro percorso, ecco il giudizio su Giuseppe Mazzini (e i suoi seguaci). Anche in questo caso Giulio Spini non usa i mezzi termini.
La Svizzera fu il rifugio ospitale dei protagonisti dei fatti d’armi o insurrezionali più notevoli, ma fu anche la scuola di liberalismo e di nazionalismi, dove i fuorusciti o gli emigrati venivano a contatto con quegli intrattabili mistici della rivoluzione nazionale che furono i mazziniani, lo stesso Mazzini compreso (…) (p. 155).
E, per non lasciar dubbi, Giulio Spini (a p. 196) – pubblicando il testo completo di una lettera che il leggendario Dolzino (patriota e avventuriero chiavennasco) scrisse al Mazzini, suo ispiratore – definisce quello scritto (…) messaggio, dal quale si può ricavare, oltre all’immutata fiducia nella rivoluzione popolare imminente, l’esaltazione religiosa dei mazziniani e la conseguente nessuna correlazione fra le aspirazioni e le cose.
Infine, anche i morbegnesi vengono ritratti nel loro comportamento durante l’epopea risorgimentale. Spini ne offre un giudizio, osservando il loro atteggiamento, quando il focoso mazziniano valchiavennasco Dolzino, nelle gloriose ma sfortunate giornate del 1848, tentò di ribellarsi al ritorno degli austriaci vincitori.
[Il Dolzino] marciò su Morbegno, dove fece rimuovere le insegne austriache e innalzare la bandiera tricolore. A quanto si sa, la popolazione di Morbegno rimase passiva e chiusa, così da far capire che quell’occupazione non era gradita. Era nella sua indole tradizionale di non scaldarsi facilmente e di mantenersi piuttosto lontana dalle psicosi collettive. Durante il sacro macello, come è noto, se ne stette tranquilla e aiutò dei grigioni a mettersi in salvo. Nella rivolta contadina per la politica religiosa della Cisalpina, del 1797, fu invasa dalla colonna in tumulto di Delebio e dintorni, ma non soffiò sul fuoco. Con Dolzino si comportò con freddezza, così che gli insorti ebbero l’impressione di trovarsi in un ambiente ostile, quasi fra gente nemica, e la loro reazione non è difficile da capirsi. In realtà,i morbegnesi, da gente pratica, pensavano al dopo (p. 205).
Dopo questo lungo inciso, torno ai miei ricordi personali. Un altro incontro, non meno importante, con Giulio Spini ebbe luogo nei primi anni Ottanta quando provai a impegnarmi nel campo del turismo culturale. Si trattava di studiare la storia di Morbegno, per farla conoscere ai visitatori, agli scolari e agli studenti. Anche questa volta, Giulio Spini fu il mio maître à penser. Quanti stimoli mi hanno trasmesso i suoi scritti! E non l’ho mai ringraziato, anche perché rifuggiva dai complimenti. Questa volta, molto in ritardo, cerco di riparare alla meno peggio.
Giulio Spini
Ma vorrei far comprendere meglio, con un esempio concreto, quali sono state le tante sollecitazioni culturali che mi ha offerto. Il primo, e più importante, cavallo di battaglia nell’ambito del turismo culturale – tradotto in visite guidate – è stato il Palazzo Malacrida, bellissimo edificio settecentesco nel cuore antico di Morbegno. Migliaia di persone l’hanno visitato. Ecco, posso affermare che la trama che sottostava alle parole che usavo in queste visite guidate era stata magistralmente tessuta da un testo di Giulio Spini. Era contenuta in un suo saggio breve e illuminante del 1981, La storia familiare dei Malacrida scritta dall’ultimo rampollo della casata. Leggerlo rappresenta una straordinaria occasione per incontrane la scrittura sciolta e misurata, sempre ritmata da una scrupolosa punteggiatura. Una scrittura che illumina i concetti espressi. Impossibile trovarvi una parola superflua. Questo è lo stile del Giulio Spini storico: al di là dell’intrinseco valore di ricerca, emerge sempre quella sua misura di chiarezza che lo rende autorevole. Eccone, allora, un breve estratto.
Il tono affettuoso, commosso quasi, traspare anche dal ritratto a tutto tondo del padre, dal resoconto delle sue traversie politiche, dalla registrazione dei suoi disturbi fisici. La cronaca familiare si fa umana e gli ultimi ramoscelli dell’albero ormai secco sembrano toccati da un lieve soffio di vita domestica, nella quale si perde e si dimentica il senso della piccola gloria a cui le memorie dovevano servire. (…) L’importanza [del diario Malacrida] consiste, quindi, anzitutto, nel fatto che vi si trova ricostruita la vicenda pluricentenaria di una delle decine di famiglie nobili valtellinesi di cui fu costituita la nervatura economica e politica della Valle fino alla Repubblica Cisalpina. Una famiglia nobile di media risonanza, quella dei Malacrida, che ha avuto momenti di evidenza più alti nel XIV e nel XV secolo, come altre del resto, ma nella quale si possono vedere riflessi caratteri e modelli comuni a tutta la nobiltà della Valtellina. La nobiltà fu, come è noto, per quasi mille anni, dal Medioevo alla fine del ‘700, la Valtellina ufficiale, la Valtellina–soggetto degli avvenimenti politici e del sistema economico (almeno in gran parte), dei rapporti con i diversi dominatori succedutisi e con l’esterno. La Valtellina ufficiale, insomma … Per chiarire, quindi, in sede storica, in che modo la Valtellina medioevale e moderna (fino alla Repubblica Cisalpina) è affiorata sulla superficie regionale, nazionale ed europea, bisogna passare per una esplorazione adeguata della nobiltà, dei caratteri suoi propri, del suo interno svolgimento e, secondo un’ipotesi da verificare, della sua parziale trasformazione, economica e culturale, in senso borghese.
Inoltre, profondo studioso della cultura locale, ha lasciato numerosi articoli e saggi, scritti sempre in uno stile esemplare per chiarezza ed eleganza. Già nella presentazione del terzo volume della Storia della Valtellina e della Valchiavenna, siamo nel 1973, Giulio Spini si pone – e formula anche a noi – una domanda centrale sulla sorte del suo mondo, di quel mondo della montagna che vedeva cambiare tanto velocemente: Ha un domani la vita collettiva in montagna o essa dispone solo di un presente, che resiste giorno per giorno, fin che può, immerso nei ricordi? Possiamo leggervi un segno della sua passione per l’etnografia, per la storia del mondo contadino. Alla fine degli anni Settanta ebbi una serie di incontri con lui per sondare la possibilità di dar vita a un Museo etnografico, che sarebbe nato con un’ampia ricerca sui dialetti della bassa Valtellina. Non se ne fece nulla. Mi restano, però, il ricordo – oltre che della sua competenza – del suo entusiasmo, della sua serietà e della sua determinazione. Possedeva un’esigenza di chiarezza morale e intellettuale che lo portavano ad essere quasi rigido nelle discussioni e coerente ad ogni costo nelle scelte. In ogni caso, era avvincente quando scriveva di argomenti che toccavano il mondo della montagna, il mondo delle sue radici, la sua Val Tartano (anche se non credo di raccontare nulla di nuovo se rivelo che il suo grande amore era la Val Fabiòlo). Il meglio, in questo campo, lo dà, a mio parere, nei testi – soffusi, qua e là, di una leggera malinconia – che fanno da preziosa cornice alle diverse sezioni del libro fotografico di Gianpiero Mazzoni, Sopravvivenze. Catturiamone un brano, dalla sezione dedicata agli anziani, tanto per scoprire un Giulio Spini ancora una volta maestro di pensiero. La sua scrittura cristallina, infatti, riesce a far comprendere in pochi tratti quello che, talvolta, viene diluito in centinaia di pagine indigeste e ricche di fumo nei saggi di sociologi e antropologi.
La montagna offre l’ambiente fisico e umano in cui negli anni della “terza età” le persone possono sentirsi ancora radicate con tutta la loro dignità, il loro passato e il loro presente. La lavorazione della terra vi dispone di compiti e mansioni che si adattano bene al graduale declino delle forze. Nessuno è costretto a cadere bruscamente nell’ozio. La vita degli anziani continua, quindi, a scorrere in comunanza di tempo, di lavoro, di interessi con i più giovani, con i ragazzi, con i bambini. Essi, gli anziani, sono la memoria vivente della montagna, in un’epoca di facili dimenticanze. Alle volte vien da chiedersi se non ne siano anche gli ultimi custodi. Certo, là dove il diradamento della gente ha lasciato troppi vuoti, i disagi e la solitudine possono fare la loro triste compagnia.
A questo ambito, al profondo legame con il mondo contadino, si può ricondurre l’appassionante – non ne ho mai perso una puntata – Diario di un parroco di montagna, pubblicato, con lo pseudonimo di Elio Rupi, in tanti episodi su Quaderni Valtellinesi (la prima puntata apparve nel luglio del 1984) e ripreso, in veste più umile, dal bollettino parrocchiale Comunità Valtartano. Considerato poi lo scopo di questo articolo – stimolare la voglia di leggere quanto ha scritto Giulio Spini – lascio una traccia per scoprire almeno altri due saggi, scelti tra i tanti. Il primo risale al 1984 ed è una sintesi storica chiara e brillante, pubblicata con il titolo I secoli della Valtellina all’inizio di Valtellina: nostalgia delle origini. È, invece, del 1990 il lavoro Stampa e vita politica in provincia di Sondrio nel periodo fascista incastonato nel secondo volume di Editoria cultura e società: quattro secoli di stampa in Valtellina (1550–1980).
Infine, nel mio minuscolo archivio conservo due sue lettere. La seconda, in particolare, vergata con quella sua scrittura volitiva, me la spedì nel 1997, dopo una visita “guidata” alla biblioteca Vanoni. Allora stava conducendo delle ricerche sul suicidio in Valtellina [1]. Insieme, per una buona mezz’ora ci eravamo aggirati tra gli scaffali e avevo cercato di rispondere a una raffica di domande che indicavano, in ogni caso, il suo profondo interesse per il funzionamento della biblioteca e in particolare la sua serena soddisfazione nel vedere già adolescente una struttura di cui lui – come sindaco di Morbegno – era stato il padre. In conclusione, sarebbe bello che in futuro molti potessero accedere facilmente ai suoi scritti, iniziando proprio da quelli storici. Si potrebbe prevederne una ristampa in due volumi. Per non restare nel vago, ecco un piccolo piano editoriale. Il primo volume, da solo, dovrebbe contenere Dalla Cisalpina al Regno d’Italia. Oggi è un libro introvabile, lo si può leggere soltanto nelle biblioteche pubbliche. L’occasione propizia per una ripubblicazione potrebbe essere l’anniversario che incombe: 1861–2011. Per quanto concerne il secondo volume, potrebbero esservi ristampati insieme alcuni saggi storici: La storia familiare dei Malacrida scritta dall’ultimo rampollo della casata [da: Addua. Studi in onore di Renzo Sertoli Salis, Sondrio, Società Storica Valtellinese, 1981, pp. 269–328]; I secoli della Valtellina [da: Valtellina, nostalgia delle origini , Milano, EFFEBI, 1984, pp. 9–34]; Stampa e vita politica in provincia di Sondrio nel periodo fascista [da: Editoria cultura e società:quattro secoli di stampa in Valtellina, 1550–1980, Sondrio, Banca popolare di Sondrio, 1990, vol. II, pp. 199–274]; infine la Storia del Movimento cattolico in Valtellina, apparso in sette puntate su Quaderni Valtellinesi, dal gennaio 1982 al gennaio 1984. E poi c’è il suo prezioso archivio … Ma questo è tutto un altro discorso. Intanto, Giulio Spini non va dimenticato. Doverosa l’intitolazione della Scuola elementare di viale Ambrosetti a Morbegno. Ma ricordarlo degnamente significa soprattutto cercare e studiare i suoi lavori. Sono questi che, negli anni a venire, rappresenteranno la sua eredità più preziosa e duratura. Intanto gli si può rendere un primo e doveroso omaggio col raccogliersi un istante davanti alla sua tomba nel cimitero di Morbegno.
A questo punto, provo a immaginare Giulio Spini mentre legge queste righe. Lui che non amava i fronzoli e le lodi. Lo vedo scuotere la testa, ripetere più volte “orpo, orpo” (era il suo curioso e buffo intercalare), e alla fine arrabbiarsi anche un po’. Ma questa volta non può farci nulla. Io lo ricordo così.
Infine devo dire un grazie di cuore alla signora Carolina Spini (1938) – originaria di Tartano – la quale, con grande delicatezza, mi ha fatto partecipe di alcuni episodi di un Giulio Spini privato, permettendomi così di poterne conoscere meglio la quotidiana umanità.
Renzo Fallati
Giulio Spini in gita con la classe di V elementare nel 1957.
Data di pubblicazione: 10 dicembre 2010
[1]: La sua ricerca diventò un contributo (in un volume pubblicato da FrancoAngeli c1999: Suicidio e società: una speranza dalla prevenzione, a cura di Mario Ballantini, dal titolo Suicidio e condizione umana della montagna, p. 137–143).