Diario di un parroco di montagna

Giulio Spini

Sondrio, Cooperativa Editoriale Quaderni Valtellinesi, 2013 (Racconti di vita), pp. 266.

La copertina del libro



Il racconto Diario di un parroco di montagna si snoda in più di duecento pagine, dalla scrittura limpida o incantata, affettuosa e attenta, sempre calda e coinvolgente: offerta di un assoluto concentrato di pathos esistenziale, in veste di narrazione diaristica; inventario singolare di itinerari antropologici e spirituali, che premono l’animo e si effondono in memorie esaltanti e sofferte. Scene piene di fascino poetico o di osservazioni sapienziali; fotografie scattate col cuore, sequenza di riflessioni formulate con disarmante verità, calibrato intreccio episodico di sorprese gentili o di ore drammatiche; patrimonio documentario di costumi. Non fittizia ricerca letteraria di ‘trovate’, ma limpido specchio in cui è davvero la ‘vita’ a trionfare o a gemere. Trasmissione delle pulsazioni della quotidianità di genti alpestri, immerse in un mondo di dure prove, aggravate da un habitat impervio e tuttavia amato; di genti stigmatizzate dall’indigenza materiale e tuttavia quasi sommersa e compensata da ricchezze genuine. Nobile «civiltà della rassegnazione senza piagnistei» (p. 75). Epifania di un tessuto identitario ordito e tramato da chi conosce la solidarietà; gruppi ‘uniti’, a dispetto della dispersione in minuscole alte contrade e in casolari punteggianti erti sentieri. È una rugiada di religiosità distillata dalla terra dei poveri coniugata a una linfa di fede, che il Padre dei forti dispensa dall’alto. Tu incontri il magistero di chi sa lottare con fede e speranza: «sono convinto di non dover suggerire a Dio qual è il mio bene, perché Lui lo sa meglio di noi» (p. 143). Ne nasce un popolo che sa proteggere una antica miniera di valori umani, sconfinanti in quelli sovrumani.
Per l’udito gli episodi trascorrono ora come cascata dalle sorprendenti rifrazioni, ora come gentile mormorio di ruscello; per gli occhi come un fascinoso mosaico laboriosamente composto; per l’animo come una tavola di sapori domestici e profumo di pane. Tesori di una solidarietà ereditata, metabolizzata e nobilmente vissuta.

Queste prime righe di presentazione sommaria (di un testo articolatissimo che ‘fa storia’ con la sua puntuale cronaca ambientata tra gli anni 1926 e 1933) non sono dettate da intento retorico, che suonerebbe quale offesa allo schietto realismo e alla sincerità che ne ha guidato la composizione. Non sono nemmeno un arduo tentativo di recensione, ma piuttosto una testimonianza. Provengono da una empatia profonda, da un impulso interiore di condivisione con l’autore, da una similare sensibilità nel confronto di fatti e di situazioni, delle persone e delle realtà passate in rassegna. Parlo quasi come compagno nella esplorazione amorosa di un mondo ormai sommerso. Godo per l’anamnesi di una civiltà a tutto campo, scaturita da coraggioso lottare e nobile soffrire e non già dalla lusinga e dalla gratificazione delle cose. Non mi vergogno a dichiarare la vena nostalgica che a più riprese, nella lettura, mi ha investito di fremiti. Bisogna aver provato. E mi si perdoni una citazione sacrale: «Expertus potest credere».
Empiricamente quanto descritto e affermato rispecchia la condizione di quella caratteristica terra montana che solamente attraverso impervi tragitti permette –per ore di cammino– di raggiungere Campo e Tartano e le loro disseminate contrade, muovendo dai centri di Sirta o di Talamona. Ma non dissimile fu la situazione geografica di altri nuclei abitativi ed analoga condizione umana vissero altre genti della nostra Valle. Il nostro Diario, pur nella sua originalità, è davvero paradigmatico per la memoria di costumi, di mentalità, di tradizioni di una estesa cultura locale, nemmeno oggi totalmente estinta.
Nella cronaca attribuita alla redazione del parroco don Beniamino, espressa in rapidi schizzi (e datazione puntuale) non si deve cercare alcuna compatta trama narrativa che illustri qualche eccezionale esperienza. Il testo appare a modo di esuberante assemblaggio di miniature del quotidiano, schizzate con vasta tavolozza cromatica, duttile a modulare i colori di una osservazione attenta e a effondere sentimenti di un animo candido. La vicinanza fa dialogare con tutto e la lentezza fa entrare dentro tutto. Ogni realtà incontrata è linguaggio incisivo, ogni evento si fa messaggio penetrante. «Per me osservare è come pregare» (p. 213).
La rassegna dei temi e delle esperienze, serrata e sterminata, sarà sorpresa di ogni lettore capace di scorrere le 265 pagine, di sintonizzarsi.

Qui, come esemplificativa campionatura contenutistica, accennerò ad alcuni dei passaggi e paesaggi del volume, a cominciare da uno scenario di umanità e attenzione pastorale. Alludo –in modo rapsodico, come nel testo– ai comportamenti del protagonista: ai commossi sguardi dedicati dal parroco ai fedeli di ogni ceto; alla compassione per gli uomini dalle spalle gravate da pesi; alla ‘quaresima’ vissuta dai poveri ben oltre il tempo liturgico; alla radicata determinazione di uomini e donne a lasciare questa terra senza il dottore –troppo lontano– ma non senza il prete conciliatore; alla pudica laboriosità di nonne e mogli e fanciulle; agli impegni diurni e notturni per alleviare il disagio dei malati e confortare la solitudine degli anziani; all’intimo comune strazio per i lutti e le disgrazie; al ‘candido funerale’ dei bambini, «beati e immacolati sulla via» (p. 25); al colloquiare schietto o alla riflessione meditativa condivisa con ogni compagno di viaggio; all’umiltà nell’accogliere la saggezza degli anziani; alla cura scolastica e ricreativa dei giovanetti; alla tenerezza verso i parenti; alla calibrata confidenza del curato con l’amabile riflessiva sorella; all’ospitalità munifica degli amici; agli incontri cordiali con i migranti nel distacco o al loro ritorno; ai dialoghi franchi tra colleghi parroci visitati o incontrati come una benedizione; alla condivisione di frugali ma sostanziose convivialità; al pudore dei rapporti amorosi tra i giovani; alla pietosa e fiduciosa memoria dei defunti; alla emozione/commozione per i canti intonati a gara nelle solenni liturgie (da voci robuste impregnate di pietà accompagnate dall’organo); al rispetto di ataviche tradizioni; alla coralità del processionare sacro e alla solidarietà delle confraternite; alle popolari effusioni pastorali del Natale e agli sfoghi dolenti nella Settimana santa… Delicati e calibrati, da parte del parroco, i doverosi rimproveri necessari per una promozione umana e cristiana.

Campo Tartano da Frasnino

Foto di R.Marchini, fraz. Campo – Tartano, vista di Campo da "Frasnino"

Poi le suggestioni del paesaggio geografico, l’immersione nella natura meravigliosa e tremenda. A fare spicco è la chiesa del patrono Sant’Agostino, luogo eminente della predicazione e della musicalissima preghiera comunitaria o méta personale dei segreti sfoghi del cuore. Questo sacro spazio custodisce (con il misticismo degli affreschi del Gavazzeni) la statua severa del Dottore, con le due dita della destra alzate «non si sa bene se a benedire o a insegnare» (p. 15). Ma Egli –come da una balconata proteso alla maggior parte delle frazioni e alla distesa della Valle– con benignità perenne esercita l’uno e l’altro ministero.
Della Valle del Tartano e del suo ventaglio di vallate, non c’è località, sentiero, viottolo a gradini, ponte, che qui non trovi mappatura e realistica descrizione: mai cavillosità di rilevamento geometrico, sempre flusso poetico di sguardi. Nel fluire dei giorni, nel tramutare delle stagioni, l’incanto degli orizzonti accarezzati dalle aurore o cullati dalla pace di notti scintillanti; gli impasti visivi tra scuri bastioni rocciosi e il candore di nevi dalla luminescenza lievissima; il policromo frondeggiare dei boschi; il tappeto dei prati cullati e flagellati dal vento, il formicolio di terrazzi rasenti le pendici. Uno scenario anche sonoro, una prolungata suite sopra il cuscino di silenzi atti a svelare l’eloquenza di ogni timbro ed esaltare ogni tono. Fascino della familiare rintocco festante dei bronzi sacri, gli scampanii di Ave Marie, l’eco di preghiere lontane; ma anche gli scrosci fluviali e il murmure racconto di ruscelli; l’appello famelico o assetato degli animali, il pigolio di nidi; il calpestio degli zoccoli e il rotolare di carri sul selciato e il cicalare confidente degli amici sui muretti o all’osteria. A tratti i drammatici appelli lanciati nelle ore del pericolo o di drammi …

La rilevanza di contenuto etnografico e la dovizia lessicale del gergo valligiano sono un altro pregio del Diario. Fedele reportage di nomi e soprannomi, fascicolo di riflessioni proverbiali, riserva di autoctone massime e costumi, guida delle arti e dei mestieri. Trattato dei ritmi pastorizi –dopo aver “chiamato marzo” con i campanacci; illustrazione dell’ingegno artigianale, dei febbrili o pazienti generi di lavoro. Ecco poi l’economia riservata alle acque, a volte scarse come i soldi; la stagione della ingrassatura dei prati; la raccolta del tesoro vitale delle erbe –a volte persino strappate ai precipizi–; la perticazione delle castagne, per gustare l’allegria delle “bruciate” o per confezionare la «farina dei poveri, così come la capra è la mucca dei poveri» (p. 60); i calcolati disboscamenti e gli accumuli di legna; la oculata lavorazione casearia; la multiforme ma efficiente primitività nel confezionare attrezzi adeguati: «rastrelli, falci, falcetti, vanghe, forche e forconi da fieno e da letame, scuri, zappe e zappette da patate, gerli e campaggi mezzo sfasciati dai pesi» (p. 27). Ancora, la perspicacia nell’utilizzo di utensili appropriati; la lavatura della biancheria alla pozza; la sagacia nel rappezzare la biancheria e nella manifattura di capi di vestiario: fino ai peduli di pezza, agli zoccoli ferrati, alle scarpe della festa…

Sempre più presenti, nell’ultima parte del Diario, sono gli accenni alla dimensione socio–politica. Ai rapporti non sempre facili di passate tentazioni campanilistiche, evocate a modo di sussurro, ora subentra la denuncia di idee e istituzioni più temibili. «Dove andremo di questo passo?» (p. 239). Aleggiano e si espandono sintomi di minaccia e pericoli di corrosione della religiosità, della ritualità sostentatrice di una convivenza dura, ma fondata sulla roccia. La montagna è «obbligante e severo ambiente fisico di vita, ma anche paese dell’anima, dimensione del sentimento» (p. 107).

Tra le altre molte cose da andrebbero diligentemente presentate, non si può omettere qualche considerazione sul diarista. Ed è questo l’aspetto più misterioso e più suggestivo che connota l’opera intera. Qui si realizzano –ma non per gioco letterario– un insospettabile fenomeno di reciprocità, un processo di integrazione, una fusione sintonica, una consonanza unisonica, che solo in poche tracce suona anche stereofonica. In termini chiari si tratta della verace identità di don Beniamino (senza prescindere da quella degli altri preti che fanno comparsa nell’affresco offertoci). Il parroco di Campo, protagonista, non è davvero una figura di fantasia né un ministro di Dio idealizzato: possiamo elencarne i connotati storici e verificare la portata della sua esperienza di servizio ecclesiale. Ma qui è, simultaneamente, il farsi luce di uno dei risultati più efficienti e durevoli di quel soggiorno a Campo. Parlo del fascino scolpito dal ‘pastore buono’ nell’animo di Giulio Spini. La densità di formazione esercitata sul giovane durante un grappolo di anni giovanili di incantata frequentazione, che ha generato e indelebilmente segnato la sensibilità di tutta una esistenza. Penso ad un magistero testimoniale, impartito con semplicità irradiante: dissodamento del cuore per nobili interessi, contagio per senso di stupore e meraviglia, iniziazione agli orizzonti poetici, riflessività che trascende le convenzionali valutazioni, penetrazione rispettosa dei cuori, esemplarità nel soffrire, nel compatire, nello sposare la causa degli umili. Il tutto è confluito nell’essenza sapienziale di quanto la pastoralità ha il compito di comunicare. «Le creature umane sono nel tempo, nascono nel tempo, si muovono nel tempo e solo nel tempo pensano, parlano, amano, odiano invecchiano. Nel tempo gioiscono e soffrono, nel tempo si salvano e si dannano, cadono nel tempo memoria degli uomini o vi si radicano profondamente. I giorni e le notti si collocano nel tempo o anche vi spariscono. Nell’eternità godono o soffrono i risultati guadagnati nel tempo. L’eternità conserva i meriti e le colpe degli anni, dei giorni e delle ore, salvandole o meno. È vero o che l’eternità è l’erede ultima indistruttibile del tempo. Da tutto ciò e da molto altro che si potrebbe aggiungere, risulta chiaro che nel nostro destino nulla si… annulla della nostra umanità. L’eternità dell’anima non può lasciare dubbi» (p. 260). Di chi sono queste parole?
Il giovane di allora, come buona terra arricchita poi da incessanti seminagioni e copiose maturazioni, ha potuto, in età matura –con arte raffinata e calore affettuoso– prestare voce all’indimenticabile amico, riprodurre a specchio quell’anima, registrare, se non le espressioni letterali, i sentimenti veraci, gli impulsi, le valutazioni, i turbamenti, gli slanci, le certezze. Non solo. Da protagonista personale Giulio Spini, lungo tutta la sua esistenza di padre, di maestro, di studioso, di dirigente, di sofferente, pur non portando la tonaca di don Beniamino e degli altri amici preti (l’indumento dell’ordine presbiterale), ha saputo esercitare un autentico sacerdozio regale.

Felice Rainoldi



Data di pubblicazione: 24 febbraio 2014.

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