Piergiuseppe Magoni Morbegno, Comune di Morbegno, Biblioteca Civica Ezio Vanoni, 1994 (Sondrio, Ignizio, 1994). |
Con il sesto libro la nostra biblioteca di cultura locale entra, per la prima volta, nel gran mondo della letteratura. Ci accompagna magistralmente, novello Virgilio, Piergiuseppe Magoni, morbegnese, un allievo di Ezio Raimondi all’Ateneo bolognese nei primi anni Sessanta del secolo scorso. La scuola ha costituito il campo di lavoro di tutta la sua vita, dapprima come docente di filosofia, in seguito come preside nei licei. Un capo di istituto dalla profonda cultura umanistica, ben lontano dallo stereotipo del burocrate formalista. L’impegnativo lavoro quotidiano, intessuto di rapporti con docenti, con uffici della pubblica istruzione, con gli allievi e i loro parenti, non ha mai smorzato il suo entusiasmo e la sua profonda passione per la scrittura. Di tanto in tanto ha pubblicato saggi, articoli e anche poesie. In particolare ha studiato e fatto conoscere artisti legati alla realtà della nostra valle (tra gli altri, Giovanni Gavazzeni, Eliseo Fumagalli, Angelo Vaninetti e Mario Negri). Un suo lavoro, Considerazioni sulla pittura e scultura in Morbegno (pubblicato dalla Banca piccolo credito valtellinese nel 1983) rivela una piena maturità di stile e di giudizio critico, mentre traccia una storia dell’arte locale, originale già nell’impianto: inizia dal Novecento e va a ritroso fino al Rinascimento. Come animatore culturale, poi, ha curato numerose mostre e rassegne dedicate ad artisti – soprattutto pittori – contemporanei. Ma è il volume dedicato alla figura e all’opera di Guglielmo Felice Damiani, che – a mio parere – rappresenta fino a questo momento l’apice della sua produzione intellettuale. Con quest’opera è riuscito a tratteggiare con pennellate sicure, sviluppate in una scrittura limpida ed elegante, il profilo di un letterato fin de siècle rimasto per troppo tempo, ingiustamente, nell’ombra.
«Giovane poeta morto non come fiore in boccio ma come bello e grande albero dopo alcune splendide fiorite». Così Giovanni Pascoli, l’illustre cantore della cavallina storna (in una lettera scritta a Giovanni Bertacchi da Bologna il 30 maggio del 1906) riassumeva, celebrandola, la breve parabola terrena di Guglielmo Felice Damiani, l’intellettuale nato a Morbegno il 28 ottobre 1875 e morto a Napoli il 23 ottobre del 1904. Una vita che si è arrestata all’improvviso sulla soglia dei 29 anni, ma che ciononostante è riuscita a lasciare dietro di sé alcune tracce profonde e ancor oggi apprezzate nel mondo della cultura. Il giovane Damiani fu in grado di spaziare sempre in modo brillante dalla creazione poetica alla storia dell’arte, dalle ricerche di cultura locale all’approfondimento della civiltà greca e alla pubblicistica politico–sociale. Per non parlare dei progetti che la morte improvvisa troncò inesorabilmente. Temo, però, siano ormai sempre di meno coloro che ricordano, leggendone le opere, questo egregio figlio di Morbegno. Il tempo, ancora una volta, ha compiuto la sua azione spietata, erodendone in gran parte la memoria. Infatti, come può sopravvivere un poeta se non con la sua poesia? E, se non la si legge, se non la si recita, il nome stesso del poeta diventa piano piano un soffio, destinato infine a svanire nel nulla. Per commemorare il Damiani, nel 1994, a novant’anni dalla repentina scomparsa, il Comune di Morbegno decise di dare alle stampe un volume che avrebbe dovuto segnare l’inizio del recupero della figura e dell’opera di quest’intellettuale. Affidò allora a Piergiuseppe Magoni, il massimo esperto del Damiani, l’incarico per la realizzazione di un testo che potesse fornire ai cittadini e agli studiosi la materia indispensabile per una riscoperta di questo importante figlio della Valtellina. Ricordo ancora che il Magoni, seguito e stimolato da Ezio Raimondi, noto italianista presso l’Università di Bologna, aveva presentato una ricca tesi di laurea dedicata a Guglielmo Felice Damiani, discussa nel 1963. Guglielmo Felice Damiani: un letterato del primo Novecento: questo è il titolo che vide la luce alla fine di dicembre del 1994, come primo volume de “La spada e le chiavi”, collana di studi culturali del Comune di Morbegno. Mille furono le copie che oggi, dopo 15 anni, sono state tutte distribuite a cittadini, a studiosi, alle scuole, alle biblioteche. Controllando on line si potrà scoprire che alcune copie sono approdate anche alle due biblioteche nazionali centrali, quella di Roma e quella di Firenze. Damiani, inoltre, avrebbe di certo apprezzato il ritorno postumo nella sua Pavia. Infatti, il volume è oggi sia nel patrimonio della civica Bonetta che in quello della biblioteca dell’Università. In ogni caso questa operazione editoriale ha rappresentato un primo passo, indispensabile, per salvaguardare in modo duraturo la memoria di Guglielmo Felice Damiani. E forse non è azione inutile ricordarne, almeno a grandi linee, le tappe principali della breve vita.
E’ nella Morbegno dell’ultimo quarto del XIX secolo, allora borgo di poche migliaia di abitanti, che Guglielmo Felice Damiani frequenta le scuole elementari. Si palesa alunno di un’intelligenza brillante. Resta una composizione scritta in quarta elementare, che ancora stupisce per la maturità di concetti e la padronanza di stile. La sua famiglia non è di agiate condizione economiche, ma grazie all’aiuto indispensabile di alcune provvidenziali borse di studio, il Damiani può intraprendere il Grand Tour dei tanti studenti valtellinesi. Un Grand Tour compiuto per poter completare una solida formazione universitaria. Per lui le tappe obbligate furono Como e Pavia. Al Collegio Gallio di Como il Damiani frequenta il ginnasio e il liceo. Là conosce Giovanni Bertacchi. E risale a questo periodo la profonda stima e amicizia per il poeta della Valchiavenna, il quale – essendo nato nel 1869 – aveva sei anni più di lui. In seguito vince il concorso per entrare come alunno al prestigioso Collegio Ghislieri di Pavia. Nella stimolante città sul Ticino frequenta la facoltà di Lettere, diventando l’allievo prediletto del filologo Vittorio Rossi, un seguace di Pio Rajna e del suo metodo storico. Si laurea con una tesi sul poeta Giovan Battista Marino. Un lavoro che dimostra la serietà della sua scrittura e del suo metodo di studio. Lasciata l’università, si dedica con passione all’insegnamento, dapprima a Celana (BG), poi a Mortara (PV). La grande svolta avviene, però, nel 1901, quando il ventiseienne Damiani si trasferisce a Napoli, allora una delle capitali culturali d’Italia e d’Europa. Qui insegna lettere nella Scuola normale femminile “Eleonora Fonseca Pimentel”. A Napoli vive solo per un pugno d’anni, quattro per la precisione. Anni che lo vedono tuffarsi con animo appassionato nel mondo della cultura. Vorrebbe una tranquillità economica, ma questo non è facile. Le sue lettere – numerose – esprimono costantemente la sua insoddisfazione di fondo. Si sente stremato dal durissimo impegno del lavoro intellettuale cui si sottopone. Un lavoro, allora come oggi, mal remunerato. Riesce comunque a farsi apprezzare, come studioso e come poeta, perfino da un ombroso maestro di pensiero come Benedetto Croce. Frequenta assiduamente i cenacoli letterari. Roberto Bracco, Matilde Serao e Sibilla Aleramo gli sono amici. Sibilla intreccia con lui una breve ma fremente passione erotico–letteraria. I suoi giorni su questa terra si concludono inaspettatamente il 23 ottobre 1904, cinque giorni prima di compiere il ventinovesimo anno d’età.
Ricco di erudizione e maestro scrupoloso, dedica i suoi studi più rilevanti alle cosiddette età della decadenza. Per la letteratura greca sceglie il poeta Nonno di Panopoli, mentre per il Seicento italiano affronta e scandaglia l’opera di Giovan Battista Marino, principe dei poeti barocchi, l’autore dell’Adone. Ma Guglielmo Felice Damiani si considera, nel profondo, poeta. E come tale ci lascia alcune opere. Una raccolta di idilli, Le due fontane (Sandron 1899); un sofferto racconto in versi, La casa paterna (Sandron 1903), e una serie di poesie che il Bertacchi – dopo la morte del Damiani – raccoglie, cerca di selezionare (ostacolato dalle pretese dei famigliari del Damiani) e cura con affetto e dedizione, pubblicandole in due volumi (1907 e 1912), da Zanichelli, con il titolo Lira spezzata. Oggi, in verità, gli studiosi della letteratura italiana, più che la sua produzione poetica considerano lo studio Sopra la poesia del cavalier Marino (Clausen 1899) la sua opera di maggior spessore. Gli interessi di Guglielmo Felice Damiani spaziano anche al di là della letteratura. Coltiva, ad esempio, una particolare passione per la pittura. Amico di Giovanni Gavazzeni, il pittore di Talamona, cerca di approfondire, insieme con lui, la storia delle arti figurative nella bassa Valtellina. Non possiamo dimenticare che proprio grazie al Damiani vengono riscoperti due monumenti fondamentali: San Pietro in Vallate (sec. XI) e la meravigliosa ancona lignea dell’Assunta a Morbegno (sec. XVI).
Un ingegno versatile, una figura poliedrica come quella del Damiani – che ha spaziato dalla poesia alla critica letteraria, al teatro, alla storia dell’arte, al giornalismo – richiedeva un’indagine critica che, sviscerandone tutta l’opera, ne mettesse in luce gli aspetti più significativi. Piergiuseppe Magoni se ne è assunto l’impegno, offrendoci – alla fine di un suo lavoro complesso e impegnativo – un eccellente risultato, raccolto in un volume di 350 pagine. Uno strumento che si può portare dappertutto. Un manuale, nel vero senso del termine, in brossura, con caratteri di stampa nitidi e grandi che permettono una facile leggibilità ovunque. Una veste semplice, con una copertina color di rosa. E il disegno della copertina è pensato come una sorta di imitazione/omaggio di una collana Adelphi. Il testo si articola in 7 capitoli (la vita, nella vita culturale del tempo, l’arte di Guglielmo Felice Damiani, i motivi poetici, antologia poetica, il teatro, il critico) completati da una interessante documentazione. Felice la scelta dell’inserimento, che prende ben settanta pagine, di un’antologia poetica. In questo modo il lettore ha a sua disposizione un vasto panorama della sua produzione lirica. Sappiamo che quanto conservato è solo una piccola parte delle sue poesie. Lo conferma senza mezzi termini il Magoni, quando scrive che «i manoscritti del Damiani hanno subito una specie di barbarie letteraria e sono andati dispersi tra parenti, amici e frugatori occasionali o si son perduti per la negligenza di chi li avrebbe dovuti conservare». Volumi come questo sono, di solito, concepiti per una consultazione mirata, per potervi ritrovare un riferimento specifico o un brano particolare. In questo caso, invece, il libro vorrebbe una lettura completa, che – partendo dalla vita del personaggio – permetta di entrare nel mondo culturale della sua epoca e, infine, di affrontarne l’opera. Presentata qui, come ho appena scritto, senza avarizia. Dalle poesie alla critica letteraria, dagli studi di storia dell’arte al teatro, dalle lettere all’impegno politico. Al termine della lettura la figura e l’opera del Damiani si stagliano nette.
Piergiuseppe Magoni afferma che «Damiani si colloca molto dignitosamente nella galleria di quelle poche decine di autori d’inizio secolo [il XX secolo, ndr.], attigua a quella dei pochissimi nomi immortali che ebbero la consapevolezza della dignità e della necessità della loro presenza nel divenire del paese, degli avvenimenti, delle evoluzioni sociali, negli interrogativi dell’uomo nuovo». Il Magoni non lo nasconde: se in questi ultimi cent’anni le poesie di Guglielmo Felice Damiani non sono più state ristampate, ci sarà pure una ragione. Come pure, invece, c’è un valido motivo perché la sua monografia Sopra la poesia del cavalier Marino sia citata ancor oggi tra i testi fondamentali per lo studio del barocco, nelle più autorevoli opere dedicate alla letteratura italiana. Un solo esempio: il volume sul Manierismo e Barocco di Marziano Guglielminetti, nella Storia della civiltà letteraria italiana curata da Giorgio Barberi Squarotti, pubblicata dalla Utet negli anni Novanta, ripresenta come fondamentale, nella bibliografia selezionata, il lavoro del Damiani. Quindi, se il giudizio su Guglielmo Felice Damiani poeta lo colloca tra i creatori di un prodotto dignitoso, ben altra risulta essere la valutazione sul Damiani critico. Come già accennato sopra, l’opera critica del Damiani costituisce ancor oggi uno dei contributi più vivi e originali – per l’interpretazione del barocco – nel panorama della cultura italiana del ‘900. E qui Piergiuseppe Magoni non ha dubbi: «Ci è parso legittimo e opportuno definire Guglielmo Felice Damiani un “letterato” del primo ‘900 più che un “poeta”, perché letterato di prima grandezza, critico non secondo a nessuno nel Novecento italiano, attuale come un classico». Per fugare ogni residua incertezza, il volume ci presenta numerose pagine che offrono una dimostrazione concreta della maturità raggiunta dal Damiani nel campo della critica letteraria.
Dopo averne definito l’eccellenza (il Damiani come critico letterario), torniamo ancora una volta al Damiani poeta. Per questo ci viene in aiuto l’autorevolezza dei due massimi studiosi del poeta di Morbegno: Piergiuseppe Magoni, il primo, ed Ettore Mazzali. Entrambi approdano, nella sostanza del giudizio, a risultati convergenti. Ettore Mazzali, scolaro di Attilio Momigliano e docente di letteratura italiana all’Università di Bologna, arriva a definirlo «un minor fratello del Bertacchi (…) un’anima bella e generosa, cui la musa fu avara, ma non del tutto indifferente o ingenerosa». Lette frettolosamente queste parole paiono quasi una lastra tombale da collocare sul tumulo dove giace tutta la poesia di Guglielmo Felice. Ma non è così. Ettore Mazzali, nella sua indagine critica sulla poesia del Damiani, trova e mette in bella evidenza «alcuni momenti ispirati». Piergiuseppe Magoni questo giudizio lo esplicita meglio, pur non discostandosene nelle linee essenziali: «Quanto fu inquieto, insoddisfatto e formalmente legato alla tradizione classica in poesia, tanto il Damiani fu lucido, deciso e originale nella critica. Egli volle essere poeta (…) ma fu uomo di lettere e critico (…) è un buon poeta, stilisticamente raffinato, sincero nell’ispirazione (…) ma non ha avuto il tempo per raggiungere una piena autonomia, per dare voce originale alla sua poetica».
Ma, allora, il Damiani è o non è un grande poeta, uno di quelli da conoscere e rileggere di tanto in tanto, magari seduti su una panchina lungo il fiume o all’ombra di un albero? Il mio parere, da letterato dilettante, non può certo discostarsi da quelli formulati da Ettore Mazzali e da Piergiuseppe Magoni. Sicuramente si tratta di una poesia che non sempre riesce a volare alto, che sente di Carducci e di Pascoli. Però è capace di penetrare nel profondo del cuore. E questo mi basta per consigliarne la lettura. Anche perché, provando ad allargare lo sguardo nella pianura dove, durante gli ultimi due secoli, è fiorita la poesia della provincia di Sondrio, (considerando soltanto quella data alle stampe) appaiono all’orizzonte ben pochi alberi. Uno è un bel pino e mi pare sia Giovanni Bertacchi. L’altra pianta vicino a quella, un piccolo salice, meno robusto ma pur sempre vivace, è Guglielmo Felice Damiani. Tutt’intorno, al di là di qualche scarno cespuglio, si vede ben poco. Alla fine potremmo proprio essere d’accordo con Benedetto Croce quando – ne La storia come pensiero e come azione – afferma che «la poesia solo in piccola parte si trova negli innumeri libri detti di poesia». Quindi, leggiamola pur tranquillamente la poesia di Guglielmo Felice Damiani. Tra l’altro dobbiamo accontentarci di una parte delle sue rime. Infatti, la sua opera poetica ha corso dei seri rischi. Basti pensare alle brutte e sciocche censure imposte dalla famiglia. Anche su questo triste episodio Piergiuseppe Magoni ci ha proposto una ricca documentazione. Un caso illuminante rimane, ad esempio, lo scambio di lettere tra la famiglia Damiani e il professor Bertacchi. Siamo nel maggio del 1905, non è trascorso l’anno dalla morte di Guglielmo Felice, e i famigliari del Damiani invitano il poeta di Chiavenna – sempre con mille avvertenze e mille cautele – affinché veda di far stampare le poesie del loro caro. E il Bertacchi, che qui dimostra come l’amicizia sia veramente un legame sacro (tanto vicino all’amore), non esita ad assumersi l’impegno gravoso di cercare un editore importante. La difficoltà consiste nel fatto che l’editore, da buon imprenditore, sa bene che i libri di poesia non portano guadagni. Ma Bertacchi cerca, insiste, finché – di malavoglia – un editore assai noto (un Mondadori di cent’anni fa) acconsente. Ad una condizione, tuttavia. Che il volume abbia la prefazione di un personaggio eminente del mondo della cultura. Il Bertacchi contatta subito Giovanni Pascoli e Benedetto Croce; entrambi avevano conosciuto il Damiani. Restano le lettere di risposta dei due. Tristi esercizi di ordinaria retorica del diniego. Del resto è proprio nella sua lettera di risposta che il Pascoli lascia sgorgare quel giudizio caramelloso che ho posto all’inizio di questa recensione («Giovane poeta morto non come fiore in boccio ma come bello e grande albero dopo alcune splendide fiorite»). Alla fine, Giovanni Bertacchi, pur stremato costantemente da un’insopportabile famiglia (quella del Damiani, e basta leggerne le lettere per capire il ‘peso’) riesce nell’ardua impresa di pubblicare dignitosamente le poesie dell’amico scomparso. L’editore sarà Zanichelli di Bologna e la prefazione verrà scritta dallo stesso Bertacchi. Quando parlo del comportamento eroico del Bertacchi nei confronti dei famigliari del Damiani, potrei sembrare uno che carica troppo le tinte. Ahimè, non è così. Ecco, qui di seguito, un esempio significativo. Don Alessandro, fratello del poeta di Morbegno, era parroco a Villa di Chiavenna. Spesso è lui, l’intellettuale che ha studiato in seminario, quello che si prende l’incarico di scrivere al Bertacchi. E il 16 maggio 1905, questo simpatico sacerdote (che tra l’altro provvederà a divulgare una cronaca della dolorosa agonia di Guglielmo Felice preoccupandosi soprattutto di evidenziarne la morte pia e devota) conclude la sua letterina al Bertacchi con le seguenti parole: «Augurandomi di non avere a ricredermi della buona opinione che ho di Lei». Ebbene, credo che molti di noi, che non possediamo la pazienza di un Giobbe, di fronte all’esibizione di tanta protervia, spia di una meschinità umana imperdonabile, avremmo senza dubbio e volentieri mandato a farsi benedire il buon curato. Non così Giovanni Bertacchi, che proseguirà apparentemente imperturbabile nel suo compito.
Quasi ad alleggerire il lungo e pesante discorso, ecco un piccolo inciso, che potrebbe muoverci al sorriso. Guglielmo Felice Damiani non ha goduto di molta fortuna neppure con le lapidi che, a Morbegno, lo ricordano. Già la lapide che, nel vecchio cimitero, a nord della chiesa di San Martino, indica il luogo della sepoltura riporta un errore, lieve, ma pur sempre un errore. Dichiara, nel marmo, che Guglielmo Felice Damiani è nato il 27 ottobre del 1875. L’Atto di nascita afferma, invece, che il poeta ha visto la luce un giorno più tardi, il 28 ottobre 1875 (forse in casa Damiani non era abitudine festeggiare i compleanni, perché anche la buona sorella Adele, quando manda a Giovanni Bertacchi le note biografiche del fratello, indica come data di nascita il 25 ottobre). E poi c’è la grande targa in marmo, quella posta dove la via Damiani si incontra con la via al Santuario, la quale afferma solennemente che l’anno di nascita del Damiani è il 1874. Anche qui dobbiamo spostare il tempo in avanti di un intero anno. Guglielmo Felice Damiani, infatti, è nato nel 1875.
Ma il saggio di Piergiuseppe Magoni si segnala anche per una sua luminosa felicità stilistica. Dalla sua penna sgorga di frequente un ritmo che si avvicina alla prosa d’arte, a quel tipo di scrittura che mi fece amare Natalino Sapegno nel lontano 1969 quando per l’esame di maturità era d’obbligo un suo testo di storia della letteratura italiana. Ne ammiravo lo stile, severo e preciso, dove ogni aggettivo sposava nel modo più naturale il suo sostantivo, dove non c’era una sola forma verbale che celasse qualche ambiguità dove le frasi si concatenavano armoniosamente l’una con l’altra. Anche la scrittura del Magoni rivela queste caratteristiche. Come esempio, basti leggere una brano tratto dalla pagina 69, dove Piergiuseppe sintetizza, da par suo, la poetica del Damiani, indicandone un percorso contrassegnato da riferimenti ai grandi maestri e inserendola nel panorama culturale della poesia italiana del tempo: «Il dolore che purifica e trasfigura, le lacrime di tristezza che si fan stille di gioia, la ricerca della sapienza nelle parole degli antichi, la morte “dolce rammarico”, il piacere delle “cose tristi”, sono i luoghi comuni della mappa poetica di fine secolo e in essi il Damiani trova la sua dimora. Stilisticamente guardava e continuò a riferirsi ai classici Parini, Foscolo e Leopardi, esplicitamente richiamati. Degli autori più vicini seguì il Carducci nel rigore formale, ammirò il Prati, definito “filosofo e lirico sublime” (…) Preferì Giovanni Pascoli e Giovanni Bertacchi, il “fratello maggiore” e il maestro della Nuova Poesia, a lui vicino per affinità nel sentire, per l’anima retica desiderosa degli spazi delle Alpi e per lo stile».
E, per concludere, un ultimo consiglio. Questo volume, sesto dei 15 che dovranno costituire la nostra biblioteca di cultura locale, non vuole una lettura diluita nel tempo. Va subito affrontato in modo completo, capitolo dopo capitolo. Solo allora lo si può riporre nello scaffale di casa, in attesa di toglierlo di tanto in tanto per una breve consultazione o per ritrovare l’armonia lontana di una poesia di Guglielmo Felice Damiani. E’ invece un lascito per i giovani studiosi quello di pensare a un’edizione completa – potrebbero bastare due volumi – di tutti gli scritti in prosa e in poesia del letterato di Morbegno. Piergiuseppe Magoni, nel frattempo, in tante pagine dove ci tocca il cuore e ci fa riflettere, ha già posto – per questa impresa – delle solide fondamenta.
Renzo Fallati
Data di pubblicazione: 14 febbraio 2009