La figura di san Giovanni Battista nel tempio maggiore di Morbegno a lui dedicato

"Fulget Crucis mysterium"

Questo titolo [27] si addice, come formula sintetica, per focalizzare il contenuto iconografico della parte più alta del grandioso affresco ligariano (1727), che occupa l’intera superficie del catino absidale. È stato fatto notare come all’apice della facciata del tempio sia stato celebrato il trionfo della Croce gloriosa, posta in mano alla statua del Redentore risorto. Qui, a dire la vittoria appare solamente l’icona del dulce lignum [28] che fece da ara all’Agnello e da trono al Redentore [29]. Lo strumento del patibolo, proposto come ’gloria’ ai credenti [30], è attorniato dalla raffigurazione degli strumenti che furono usati per il sacrificio del Golgota. Il tutto per fare da corona alla macchina–reliquiario che splende, a modo di sole radioso, al centro d’uno spazio tutto luce. Sospeso in alto, questo tabernacolo intagliato [31], sorretto da angeli, custodisce la reliquia più preziosa tra quelle che Morbegno venera: la sacra Spina. Uno dei frammenti di quella ’corona regale’ [32] intessuta durante il processo a Cristo; un frammento di quell’intreccio d’aculei, ideato per infliggere tormento e nutrire la derisione, è ora stella polare del tempio; è esaltato quale tesoro attestante la vera definitiva ’regalità’ di Colui che è vivente ed è presente –in sacramento– custodito nel sottostante tabernacolo eucaristico.

catino ligariano

Il catino dell’abside affrescato da Pietro Ligari

Era troppo poco l’aver già predisposto, nel secondo tempio di San Giovanni [33], non ancora dotato dell’attuale abside, la cappella comunale ’della Passione’ –al lato sinistro della navata– per custodire quella sacra reliquia. Da assai più di un secolo la spina era stata destinata ai morbegnesi dal loro illustre concittadino, il vescovo Feliciano Ninguarda [34]. Tuttavia, durante l’assetto che intese dare rinnovato splendore al tempio maggiore, da un lato si volle individuare uno spazio ancora più significativo e più adeguato ai fini della drammatizzazione annuale della ’discesa–ascesa’ del Signore [35], dall’altro vennero più felicemente intrecciate e armonizzate le memorie del Chritus passus e del suo Precursore. La solenne traslazione della reliquia nel catino absidale avvenne nel dicembre 1726, ed ispirò al Ligari la più degna inquadratura e il reliquiario di legno scolpito, rilucente d’oro [36]. Esso costituisce il vertice che calamita tutti gli elementi del magnifico progetto. Infatti, prima di ricondurre l’attenzione sulla figura di san Giovanni, è bene che lo sguardo si distenda ancora per un poco, ammirato, sull’insieme della complessa scena affrescata. Vale la pena di fermare gli occhi su ciascuna delle figure d’angeli e di putti, che formano una ghirlanda inneggiante alla Passione del Signore. Nulla del racconto evangelico è stato trascurato. L’artista venne guidato sapientemente nel fissare una plenaria evocazione e nell’effigiare un devoto e realistico inventario comprensivo d’ogni particolare. Con un’essenzialità non meno eloquente di una Via Crucis.

La rassegna figurativa degli elementi evocati dai Vangeli non segue, nel nostro affresco, un ordine sequenziale. Dal momento che è la globalità del dramma che interessa vengono lasciati spazi liberi all’armoniosa inventiva pittorica [37]. Si osservi, partendo da sinistra, un primo gruppo che presenta due grandi angeli in contemplazione con altri angioletti del raggiante reliquiario centrale. Rappresentano la gratitudine e lo stupore di un popolo che, come loro, solleva occhi e mani, a dire lo slancio del cuore. Poi, ecco emergere dal cornicione una sfilata: figure che mostrano il martello e la tenaglia, poi, in parallelo la spugna issata sulla canna (per l’offerta di aceto e fiele al Sitio uscito dalle labbra bruciate del Crocifisso), e la lancia che trafisse il costato del Signore ormai morto, ma ancora zampillante sangue ed acqua per la nostra sete. Al centro, tre ministri angelici procedono ad una vistosa ostensione dell’ampia sindone sulla quale, con sfumate linee color sanguigno, il Ligari ha tratteggiato l’impronta del cadavere di Gesù [38]. Un solo angelo, per contro, è custode di ben tre oggetti della passione: le funi, il flagello e la colonna della flagellazione. Il gruppetto sulla destra reca brocca e bacile: ci fu un Pilato che, mediante un lavarsi le mani, pretese trasformare in innocenza la sua codarda colpevolezza. Più a destra ancora, ecco il manto purpureo che avvolse Gesù quando lo si volle irridere a modo di re fantoccio.

Sindone

L’impronta di Gesù cadavere affrescata da Pietro Ligari (particolare del catino absidale)

Il ritorno su un piano superiore propone all’attenzione il sudario con il volto insanguinato di Gesù impresso durante l’ascesa al Calvario, secondo la tradizione della Veronica (vera icone); poi la scala per la deposizione del cadavere. Accanto alla figura della grande Croce ecco, a destra, il contestato cartiglio con la scritta "I.N.R.I." (Gesù Nazzareno Re dei Giudei) che sovrastò il capo di Gesù; e a sinistra il calice simbolico dell’agonia del Getsemani. Infine, tre grossi chiodi acuminati per la crocifissione, sorretti entro un bianco panno da due angioletti.
Quanto il poeta antico, Venanzio Fortunato, aveva racchiuso in commossi versi, ripresi dalla celebrazione liturgica [39], qui rifluisce in una girandola festosa di colori e di forme: "dulce lignum, dulces clavos!... Agnus in cruce levatur immolandus stipite… Hic acetum, fel, arundo, sputa, clavi, lancea; mite corpus perforatur, sanguis unda profluit: terra, pondus, astra, mundus quo lavantur flumine…" [40].
Non è questo il vero Battesimo del Signore [41], compimento di quello che aveva caratterizzato la prima tappa messianica, tra le braccia del Battista al fiume Giordano?


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note

[27] "Il mistero della Croce è splendore". Si tratta del secondo verso (prima strofa) di Vexilla Regis prodeunt, uno dei gioielli della innodia antica –ancora in uso– che Venanzio Fortunato (†600c.) compose in onore della gloriosa Passione di Cristo in occasione del ricevimento della reliquia della Croce in Gallia, a Poitiers.

[28] L’espressione è tolta da un altro inno di Venanzio Fortunato: il Pange lingua–Crux fidelis, che viene proposto ancora per il canto durante la liturgia di Adorazione della Croce al Venerdì santo.

[29] È bene ricordare come la croce di Gesù sia stata considerata, fin dall’antichità cristiana, come ’antitipo’ dell’albero che si trovava, in principio, al centro dell’Eden: l’arbor vitae nuovamente diveniva cuore del mondo. Una curiosa interpretazione che collega ed oppone la miseria del peccato di Adamo e la gloria del riscatto di Cristo passò, attraverso il Medioevo, nell’opera di Jacopo da Varagine. Nella Legenda aurea è rievocata l’avventura della croce (ma è lasciato al lettore il giudizio di decidere se le vicende narrate siano vere o false). Quel legno sarebbe stato lo stesso dell’albero antico che costituiva il tesoro del paradiso terrestre: "Si dice che all’avvicinarsi della passione di Cristo, il legno emerse dalle profondità della terra: i giudei che lo videro ne fecero una croce per nostro Signore". Cfr. J. DA VARAGINE, Leggenda aurea, Traduzione di C. Lisi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1985, Vol. 1, pp.306–308.

[30] La Liturgia cristiana che apre il Triduo pasquale riprende da san Paolo il mandato, traducendolo in canto: "È nostro dovere gloriarci della Croce del Signore nostro Gesù Cristo" (cfr. Gal 6, 14).

[31] Su disegno di Pietro Ligari, che organizzò tutto l’affresco del catino in funzione di questo ’apice’ visivo, potenziato dal rilievo.

[32] "Salve Rex Iudeorum" (Salve, Re del popolo giudaico) sono le parole di scherno rivolte a Gesù dai soldati, nel pretorio di Pilato.

[33] Quando la città accolse il dono del Ninguarda, lo dovette riporre, ovviamente, nel ’vecchio San Giovanni’.

[34] Nella cappella che in un secondo momento custodì la reliquia, quella attuale di sinistra del nuovo San Giovanni, Pietro Bianchi (Bustino) nel primo ventennio del 1700 affrescherà (cfr il tondo sopra la scena dell’Agonia nell’orto), il ritratto di monsignor Ninguarda con la memoria: "Faelicianus Ninguarda hoc Guglielmi ducis Bavariae donum patriae dicavit. 1584". (Sul lato sinistro ritrarrà l’altro benemerito vescovo morbegnese, Matteo dell’Olmo, insieme allo stemma del Comune. Queste opere costituiscono un atto retrospettivo di riconoscimento pubblico di una ricchezza e di un’autocoscienza civico–religiosa. L’anno evocato dall’affresco, il 1584, è quello della consegna della reliquia da parte del Duca di Baviera al nunzio Ninguarda, avvenuta forse in occasione della nomina episcopale, prima del ministero esercitato a Sant’Agata dei Goti e poi a Como, fino al 1595. Alla Comunità cittadina la teca argentea venne offerta dai fratelli del vescovo defunto –per assecondarne il desiderio– nelle mani dell’arciprete Ludovico Malaguccini, solo nel 1608. L’atto è solennemente verbalizzato. Di conseguenza nel vecchio tempio di San Giovanni venne costruito un altare per la custodia, centro di irraggiamento dei fondamentali atti di culto alla reliquia già programmati e celebrati con somma devozione in quei tempi calamitosi.

[35] La committenza al Ligari da parte dell’arciprete Gian Pietro Castelli Sannazaro (non se ne trova documentazione esplicita, ma non si vede che cosa ipotizzare alternativamente) non costituì evidentemente un’operazione a senso unico; l’esito rivela la volontà di dare alla luce un complesso iconografico denso ed unitario, con valore dottrinale e insieme funzionale ad una delle più sentite celebrazioni cittadine, condotte con la pietà ed il fasto barocco. A tutt’oggi viene effettuato questo rito antico, che permette la processione solenne con l’insigne reliquia.

[36] Varie notizie in merito sono state raccolte da R. Rapella, nei suoi racconti su Morbegno già pubblicati su Le Vie del bene e ora raccolti in volume. Cfr La Santa Spina, pp. 327–399.

[37] Suggestiva è la lettura degli affreschi fatta da Guglielmo Felice Damiani alla fine dell’Ottocento, e riportata da G. Perotti nel volume Scritti d’arte…, op. cit., pp. 263–265.

[38] La fotografia che viene riprodotta evidenzia di proposito questo particolare del grande affresco settecentesco. Si tratta di una delle attestazioni della importanza che da secoli viene attribuita alla reliquia. Essa, dal 1578, è conservata a Torino (meta di storici pellegrinaggi, oggetto di incessanti studi scientifici, e durante questo anno 2010, visitata in occasione della ostensione, da milioni di pellegrini, tra i quali il papa). Sulla travagliata vicenda storica del sacro lenzuolo è stata prodotta di recente una copiosa letteratura. Vale la pena di ricordare che il grande santo della Controriforma, Carlo Borromeo (†1584), per ben tre volte si recò a Torino per rendere culto, oltre che all’immagine, al sacro sangue impresso sul lenzuolo, da lui valutato alla pari del sangue eucaristico. Sulla vita dell’arcivescovo cfr. C. BESCAPÉ, Vita e opere di san Carlo, Milano, NED–Nuove Edizioni Duomo, 1983. L’originale latino di detta biografia è del 1592.

[39] Un tema di estremo interesse è quello che riguarda la documentazione del rifluire della liturgia sull’arte.

[40] Paradossali espressioni, per dire la felicità e la fecondità della salvezza scaturita dalla Passione redentrice di Cristo: dai chiodi, dal legno su cui venne appeso e immolato quale Agnello, dai gesti inflitti al Signore con la flagellazione, l’incoronazione di spine, con l’offerta del fiele, con la trasmissione….

[41] "Baptisma autem habeo baptizari et quomodo coartor, usque dum perficiatur" (Lc 12, 50). "Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!".