2. La forma della comunità: culture locali nel mutamento

2.1. L’uniformità culturale e l’indistinzione sociale del XIV secolo in Valtellina

L’ambiente dal quale è possibile prendere le mosse, perché sufficientemente documentato, è quello della bassa Valtellina all’inizio del XIV secolo. L’immagine che tanto le pratiche fiscali e giudiziarie quanto le rappresentazioni normative e documentarie delineano per la zona, nel Duecento e all’inizio del Trecento, è quella di una società di ordini, con una netta divisione tra i cittadini (coloro che godevano del privilegio della cittadinanza comasca pur risiedendo in valle), i nobili locali e i vicini, i residenti nel comune dotati di pieni diritti, ma esclusi dai ranghi dei privilegiati. Allora il comune rurale era l’organizzazione istituzionale dei soli vicini (commune vicinorum), e ed era quindi una sorta di formazione cetuale accanto ad altre, situate al di fuori del comune vero e proprio, quali la communitas civium e la communitas nobilium. L’universo dei vicini era caratterizzato da una notevole fluidità e mobilità, e le linee di delimitazione delle appartenenze sociali e territoriali erano poco profonde e precarie: l’identità residenziale era labile, facile da acquisire e da abbandonare per una popolazione che appare relativamente poco radicata; quella parentale era ristretta e caduca nella memoria sociale, come mostrano i nomi di famiglia continuamente rinnovati. Nessun distintivo di status (non quello di dominus, in quest’età ancora appannaggio dei livelli massimi della gerarchia sociale, ma nemmeno quello di ser, riferito alla persona o al padre), e raramente pure l’indicazione di un mestiere o la più generica qualifica di magister, articolavano il comune rurale al suo interno, graduando il prestigio dei singoli vicini o contornando dei gruppi professionali. È come se la nitida divisione fra i tre ordini di cittadino, nobile e vicino, con la loro netta discontinuità di rango, costituisse un indicatore esaustivo e unico, almeno per gli strati inferiori della popolazione, della posizione di ciascuno nella società, non suscettibile di ulteriore graduazione e precisazione.

Più in generale, la valle era caratterizzata da una complessiva indistinzione: non vi erano radicali differenze, per funzioni e ruoli nel territorio, tra i vari comuni, né, all’interno degli stessi comuni, tra i diversi villaggi che li costituivano. Poiché tutti i communia vicinorum presentavano linee di articolazione e di divisione interna così labili, essi mostrano pure fisionomie molto simili tra loro.

Gli atti delle assemblee concorrono nel delineare questo panorama, non introducendo alcun elemento di distinzione in seno alla comunità. Nel XIII e all’inizio del XIV secolo, gli elenchi dei presenti recati dai verbali dei consigli di vicinanza sono straordinariamente uniformi e ovunque sembra che nessuna identità individuale si aggiunga all’appartenenza al comune, complicandola e differenziandola. Allora i notai non dedicavano alcuna cura nel raccogliere in sequenze continue coloro che portavano lo stesso cognome o abitavano la stessa unità residenziale, o a porre in successione i nomi dei vicini in base al loro prestigio, considerata anche la rarità, di cui ho detto, con cui dispensavano titoli di dignità. Le opzioni grafiche dei documenti erano parte integrante di tale strategia retorica e ribadivano l’immagine inarticolata e indifferenziata dei comuni rurali. I loro elenchi, infatti, si presentano come intricatissime selve di nomi, senza che alcun accorgimento intervenga a ripartire la pagina e a suggerire con immediatezza rapporti rilevanti (di gerarchia o di reciproca attinenza, su base residenziale o consanguinea) tra i capifamiglia convenuti.

Le prime attestazioni in questo senso risalgono al XIII secolo e riguardano centri dell’alta e media Valtellina: Villa (Archivio storico del Santuario della Beata Vergine di Tirano, Pergamene, 97, 1215.12.12), Montagna, Tirano, Stazzona [22] o, all’inizio del secolo successivo, Grosio (ASCG, Pergamene, 13, 1339.02.28). In realtà si tratta di testimonianze ancora molto dubbie, perché relative ad atti in pubblica forma: in seguito risulterà, infatti, che, lungo le diverse fasi redazionali dell’istrumento, il documento veniva condotto alla sua massima elaborazione grafica nell’imbreviatura, non nella pergamena consegnata alle parti. Nei pochi casi in cui sono riuscito a rintracciare due livelli redazionali del medesimo istrumento, per Morbegno (ASSo, AN, 242, f. 317r., 1466.05.09; cfr. Archivio storico del comune di Morbegno, Pergamene, 5, 1466.05.09) e Grosio (ASSo, AN, 776, f. 260r., 1532.04.25; cfr. ASCG, Pergamene, 351, 1532.04.25), ho potuto constatare che la più curata organizzazione dell’elenco nell’imbreviatura, dove il notaio faceva uso della lista, disposta su due colonne, magari enfatizzando la precedenza dei titolati, cedeva nella pergamena ad un’indistinta sequenza di nomi, in cui si perde ogni evidenza delle diverse posizioni gerarchiche.

Più certe, allora, sono le testimonianze offerte dalle imbreviature di poco successive. Risulta, infatti, molto evidente lo stacco tra queste soluzioni del primo Trecento e le ricercate disposizioni che i notai adotteranno in seguito per lo stesso tipo di documento e per il medesimo livello di elaborazione dell’istrumento (§ 2.2.1). I notai che verbalizzarono i consigli di vicinanza di un numero cospicuo di comuni dell’area optarono tutti per la stessa fitta sequenza di nomi, allineati in modo continuo sulla riga, che non conosceva altra pausa se non la fine della colonna determinata dall’estensione della carta e dai suoi margini. I notai morbegnesi Guidino Castelli d’Argegno e i suoi figli Romeriolo e Giovannolo videro in questo modo le realtà pure già assai differenziate di Morbegno (ASSo, AN, 2, f. 205v., 1333.07.19), Cosio (ivi, f. 22r., 1322.10.27), Bema (ivi, f. 198r., 1333.05.03), Albaredo (ASSo, AN, 5, f. 115r., 1347.02.05), Ardenno (ASSo, AN, 2, f. 342v., 1343.10.18), Rasura (ASSo, AN, 4, f. 234r., 1342.12.10), Civo (ASSo, AN, 5, f. 82r., 1346.04.17), Gerola (ASSo, AN, 25, f. 293r., 1379.01.25).

Questi elenchi informi non devono essere letti come una rinuncia dei notai a proporre una rappresentazione documentaria della comunità, ma appunto come la prima immagine consapevole che siamo in grado di identificare. Le nude sequenze di nomi costituivano comunque un’interpretazione della realtà sociale, che considerava gli uomini menzionati come nient’altro che vicini del proprio comune, non differenziati fra loro dal prestigio personale ad essi eventualmente riconosciuto, non aggregati in sotto–gruppi dai rapporti generati dalla residenza nei singoli villaggi costituenti il territorio del comune stesso o dalla consanguineità. A seguito di questa scelta, le immagini di realtà più o meno articolate da un punto di vista insediativo, abitate da un elevato o da un ridotto numero di nuclei consanguinei, dalla società più stratificata o più appiattita risultano inevitabilmente indistinguibili tra loro.

Come accennavo, non tutti i residenti erano vicini, vi erano pure gli appartenenti agli ordini privilegiati; tuttavia la segregazione dei ceti era tale che per documentare la vita assembleare dei nobili e dei cittadini, i notai non dovettero pensare immagini unitarie della realtà locale, che in qualche modo precisassero i rapporti tra gli individui e i gruppi. Ribadendo la posizione degli ordini privilegiati al di fuori del comune, essi stilarono verbali separati, identici però sotto il profilo formale a quelli che riguardavano i vicini, ad esempio per i soli cittadini di Morbegno (ASSo, AN, 4, f. 221r., 1342.10.11) o i soli nobili di Cosio (ASSo, AN, 25, f. 263r., 1377.04.16).


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note

[22] Archivio storico del Santuario della Beata Vergine di Tirano, 165, 1246.02.18; 225, 1254.08.09; 436, 1311.12.19.