Per una storia del “Fondo Pergamene” dell’Archivio notarile di Sondrio

1. Premessa

Il titolo V dal Regolamento del notariato 17 giugno 1806 («Degli archivi», art. 122–145) disciplinò in modo uniforme per tutto il Regno l’istituzione ed il funzionamento degli Archivi notarili [1]. Tale articolo stabiliva che tutte le imbreviature dei notai locali fossero riunite, per una conservazione accentrata, in un unico Archivio istituito presso ciascun capoluogo di dipartimento [2]. È quanto avvenne anche a Sondrio: infatti, con decreto del 6 ottobre 1807, il viceré Eugenio de Beauharnais vi istituì un Archivio notarile [3].
A partire dall’aprile del 1808, presso questo Istituto iniziarono ad affluire imbreviature di notai da tutta la Valtellina e dai contadi di Bormio e Chiavenna: si trattava di una mole impressionante di scritture, frutto di cinque secoli di produzione documentaria [4].

Per quel che riguarda il contesto della magnifica terra, il capo 70 (De chartis imbreviandis) degli statuti del Comune di Bormio [5], risalenti al 1561 e normanti una consuetudine consolidata da secoli [6], regolava in modo stringente la disciplina circa la tenuta delle imbreviature dei notai. Ciascun notaio, che per esercitare la professione tabellionare doveva essere laudato dal consiglio della comunità di Bormio (capo 69 degli statuti: De collaudatione notariorum) [7], era in obbligo di «illam chartam vel illa instrumenta imbreviare aut in quaterno ponere, antequam tradat eam seu ea» [8]. Erano severe le pene per i contravventori. Era infatti stabilito che «ille notarius qui tradaverit aliquod instrumentum et non imbreviaverit sive impleverit ipsum instrumentum in imbreviatura et exinde aliqua persona sustineret aliquod damnum tali defectu, quod ipsa persona patiens damnum habeat arbitrium convenienti personaliter illum notarium ad sadisfaciendum dannum et eius bona» [9].

Erano proprio le imbreviature ad essere rivendicate da parte degli addetti dell’Archivio notarile, secondo quanto previsto dal regolamento notarile. Sulla loro acquisizione si concentrava la corrispondenza dei primi anni di vita del nuovo Istituto, come ho già avuto modo di sottolineare in altra sede [10]; era invece sostanzialmente trascurata l’acquisizione di redazioni in pubblica forma degli instrumenta [11].
Questa linea di condotta era stata determinata da un cambiamento – già avviato dal XVII secolo e progressivamente affermatosi anche in Valtellina e nei contadi – relativo al modo di interpretare le diverse forme espresse nelle tre fasi del processo di documentazione [12].
La stessa progressiva evoluzione nell’impiego della terminologia fa comprendere la sottesa variazione di mentalità. Il documento conservato nell’imbreviatura del notaio, già dal Cinquecento, tende a divenire sempre più completo e di fatto acquisisce – con la sottoscrizione notarile – le prerogative di originale, assumendo ormai stabilmente il nome di instrumentum. Di converso, la scrittura che il notaio consegnava alle parti (durante il medioevo, comunemente detta instrumentum in mundum redactum) diviene una riproduzione fedele di quella conservata nella filza o nell’imbreviatura, e per questo si avvia ad assumere nella terminologia corrente il nome di copia autentica [13]. Così «in età moderna e fino ad oggi la gerarchia semantica del termine autentico si rovescerà: dall’ordinamento giuridico saranno considerati originali i protocolli notarili e copie autentiche i documenti rilasciati alle parti committenti» [14].

Inoltre, la fase dell’instrumentum in mundum redactum avveniva su iniziativa della parte che ne richiedeva l’estrazione in publicam formam, per produrlo in giudizio o – più semplicemente – per conservarlo nel proprio archivio privato. Pertanto quella scrittura non rimaneva – almeno in linea teorica – nell’archivio del notaio [15] (e dunque non era passibile di rivendicazione da parte dell’Archivio notarile) [16].

Ma di questo modo di intendere le fasi di redazione del documento, secondo un approccio caratterizzante l’età moderna, appare evidente la problematicità qualora lo si riferisca alle scritture medievali. Ne consegue l’originarsi di problemi che sarebbero emersi in tutte le fasi di acquisizione e di ricognizione delle redactiones in mundum all’interno dell’Archivio notarile di Sondrio, specie nella prima metà dell’Ottocento. Questo dato costituisce il punto di partenza della presente indagine.

L’attenzione, in questo studio, si soffermerà in particolare sull’acquisizione di un consistente corpus di estrazioni in pubblica forma, che fu versato dalla Pretura di Bormio nel 1833: acquisizione ‘anomala’ dunque, secondo la prospettiva sopra delineata e come a più riprese rimarcato dagli stessi addetti dell’Archivio notarile. Si trattava di due casse contenenti, tra l’altro, 1920 estrazioni su carta e su membrana, datate dal XIV sino al XVIII secolo.
Saranno individuati i protagonisti del versamento, verranno indagate le cause e analizzate le motivazioni che determinarono, da parte dell’Archivio notarile, la scelta di trattenere un grande numero di queste scritture. Inoltre si dirà pure come una consistente parte di documenti venne restituita agli aventi diritto, mentre furono trattenute soprattutto le scritture più antiche, quelle su membrana.
Fu il dato della dispersione degli originali (ovverosia delle imbreviature, secondo il pensiero e la terminologia dell’epoca) a dettare il criterio teorico discriminante per la restituzione o viceversa per il trattenimento delle copie autentiche (ovverosia delle redazioni in mundum, pure con riferimento alla terminologia delle fonti coeve). Con l’evidente risultato, nel caso in esame, che furono trattenute presso l’Archivio notarile – ad esempio – tutte le scritture bormiesi trecentesche, per nessuna delle quali si sono conservate imbreviature di notai locali [17].

Il lavoro qui presentato ha pertanto un duplice scopo.
Da un lato, in modo più pragmatico, intende rendere noto il dato – sinora ignorato – dell’esistenza presso l’Archivio notarile (oggi conservato all’Archivio di Stato di Sondrio) di un consistente gruppo di documenti su membrana, versati nel 1833 dalla Pretura di Bormio: ne sono attualmente conservati 199.
Oggi queste pergamene – il cui stato di conservazione complessivo è discreto – sono conservate per lo più piegate; oppure, in quantità minore, distese se di piccole dimensioni. I documenti di cui tramandano la memoria sono cronologicamente compresi tra il 1339 e il 1634, secondo la seguente ripartizione nei secoli: 6 documenti del XIV secolo, 14 del XV, 127 del XVI, 53 del XVII. Il documento più antico, qui sotto in fig. 1, è una vendita di Alberto del fu Giacomo di Bormio a favore di Bormino de Peppo del fu Oprando di Bormio di un prato sito a Bormio. È datato 13 novembre 1339, a rogito di Giacomino Manera, notarius Burmii [18]. Quello più recente risale al 15 maggio 1634: si tratta di una vendita rogata da Fogliani Abramo fu Baldassarre, pure notaio di Bormio, al numero 1349 [19].

Il più antico documento

Fig. 1: Il più antico documento versato nel 1833 dalla Pretura di Bormio all’Archivio notarile di Sondrio: instrumentum venditionis del 13 novembre 1339, rogato da Giacomino Manera (ASSo, AN, Pergamene, n. 6).

Il secondo obiettivo del contributo, di portata più generale, è quello di attivare una condivisione delle riflessioni sino ad ora maturate riguardo al cosiddetto “Fondo pergamene dell’Archivio notarile”.
La prospettiva storica, volta a chiarire le differenti vie di trasmissione e le diversificate modalità delle acquisizioni, permette di andare oltre alla ‘presa in blocco’ di in corpus di scritture che, in virtù del supporto membranaceo, soltanto dalla fine dell’Ottocento fu avvertito come una unità. Così l’analisi dei passaggi delle carte consente di riscoprire lo spessore di una storia ‘viva’ e ‘vissuta’, di ritrovare le differenze entro una unità solo apparente (a partire dalla distinzione delle scritture bormiesi da quelle con differente storia di trasmissione).
Si avrà così modo di riflettere sui diversi modi che nello scorrere del tempo caratterizzarono l’agire degli addetti dell’Archivio notarile prima, e dell’Archivio di Stato poi, nei confronti delle scritture su membrana. Il rilievo dei sensibili mutamenti avvenuti nel corso degli anni risulta illuminante al fine di ricostruire la complessa storia di quel fondo.




precedente precedente | torna sutorna su | successivo successivo


note

[1] Il testo integrale del regolamento sul notariato di Napoleone (Saint Cloud, 17 giugno 1806) si trova all’interno del Bollettino delle leggi del Regno d’Italia. Parte II. Dal 1 maggio al 31 agosto 1806, coll’aggiunta dei decreti pubblicati negli Stati veneti avanti la loro riunione al Regno, Milano, Dalla reale stamperia, [1806], pp. 664–717. Per una presentazione generale del regolamento si rimanda a F. MAZZANTI PEPE, Modello francese e ordinamenti notarili in età napoleonica, parte II: L’innesto del modello francese sulle tradizioni notarili italiane in età napoleonica, cap. III: Il Regno d’Italia («Regolamento sul notariato» del 17 giugno 1806), in F. MAZZANTI PEPE – G. ANCARANI, Il notariato in Italia dall’età napoleonica all’unità, Roma, Consiglio nazionale del Notariato, 1983 (Studi storici sul Notariato italiano, VII), pp. 175–203.

[2] Per l’organizzazione delle terre dell’attuale provincia di Sondrio durante l’età napoleonica si rimanda, in particolare, a F. DE CENSI, La Valtellina e le sue vicende nel periodo napoleonico, Sondrio, Società storica valtellinese, 1994 (Raccolta di studi storici sulla Valtellina, XXX). In particolare cfr. il cap. I: Condizioni della Valtellina alla fine del sec. XVIII, pp. 13–38. Inoltre: G. ROMEGIALLI, Storia della Valtellina e delle già contee di Bormio e Chiavenna, Sondrio, Della Cagnoletta, 1839, vol. IV, pp. 170–554, A. RUFER, Der Freistaat der Drei Bünde und die Frage des Veltlins. Korrespondenzen und Aktenstücken aus den Jahren 1796 und 1797, Nuova serie, sez. III, parte I, t. I, vol. I, 1916, vol. II, 1917 (Quellen der Schweizer Geschichte); ma soprattutto S. MASSERA, La fine del dominio grigione in Valtellina e nei contadi di Bormio e di Chiavenna. 1797, Sondrio, Credito Valtellinese, 1991 (Collana storica, 6); IDEM, Napoleone Bonaparte e i Valtellinesi. Breve storia di una grande illusione, Sondrio, Credito Valtellinese, 1997 (Collana storica, 9).

[3] Sui primi passi dell’Archivio di Stato e sulle procedure di acquisizione delle scritture, mi permetto di rimandare a R. PEZZOLA, «Per la bramata unione delle carte spettanti all’Archivio generale». Nascita e primi passi dell’Archivio notarile di Sondrio (1807–1814) , in Rassegna degli Archivi di Stato, Roma, set.– dic. 2007, nuova serie – anno III – n. 3, pp. 532 – 564, consultabile in rete all’indirizzo:
<http://www.archivi.beniculturali.it/DGA–free/Rassegna/RAS_2007_3.pdf>.

[4] Scrive Pierluigi Piano: «E’ questo sicuramente il fondo più pregevole dell’Archivio di Stato di Sondrio. Raccoglie imbreviature ed atti dei notai che rogarono nella Valtellina, nella Valchiavenna e nel Bormiese (…) per un complesso di 10.729 volumi (1321–1886) (…)» (P. PIANO, L’Archivio di Stato di Sondrio, in corso di stampa, p. 16). Tra i protocolli conservati, tutti cartacei, i più antichi sono di Guidino Castelli Argegno, notaio morbegnese attivo tra il 1321 e il 1354, ASSo, AN, bb. nn. 2–3.

[5] Statuta seu leges municipales communitatis Burmii tam civiles quam criminales, a cura di L. Martinelli – S. Rovaris, Sondrio, Banca Piccolo Credito Valtellinese, 1984 (Collana storica, 3), pp. 100–103.

[6] Gli statuti trecenteschi, custoditi in forma frammentaria presso l’archivio del Comune di Bormio e presso l’Archivio di Stato di Sondrio, non conservano i relativi capitoli.

[7] Riguardo all’officio di nodaria nella magnifica terra: M. L. MANGINI, «Membra disiecta» del collegio notarile di Como. Notai e forme di organizzazione della professione notarile in Valtellina e nel Bormiese (secc. XV ex – XVI in) , «Bollettino della Società storica valtellinese», 58 (2005), pp. 149–194 ed EADEM, Il notariato a Como. «Liber matricule notariorum civitatis et episcopatus Cumarum» (1427–1605) , Varese, Insubria University Press, 2007, pp. 109–115. Inoltre cfr. anche i lavori di Massimo della Misericordia, soprattutto: M. DELLA MISERICORDIA, Mappe di carte. Le scritture e gli archivi delle comunità rurali della montagna lombarda nel basso medioevo, in corso di stampa in Archivi e comunità tra Medioevo ed Età Moderna, a cura di A. BARTOLI LANGELI – A. GIORGI – S. MOSCADELLI, Trento. Distribuito in formato digitale dalla Direzione Generale per gli Archivi – Ministero per i Beni e le Attività Culturali (www.archivi.beniculturali.it); IDEM, Figure di comunità. Documento notarile, forme della convivenza, riflessione locale sulla vita associata nella montagna lombarda e nella pianura comasca (secoli XIV–XVI), ipertesto disponibile nel sito dell’associazione culturale “Ad Fontes”, all’indirizzo www.adfontes.it.

[8] Statuta seu leges municipales, p. 100.

[9] Ivi, p. 103.

[10] PEZZOLA, «Per la bramata unione», in particolare il paragrafo 3.1. Le trattative preliminari.

[11] Sono assai rari, ma documentati, i casi di altre consegne di documenti estratti in pubblica forma, su carta oppure su membrana. Ad esempio, nell’accompagnatoria al versamento di scritture da parte di Bernardo Fontana (10 marzo 1810) si legge: «Con alcune pergamene ossia alcuni istromenti estratti in pergamena» (ASSo, AN, Concentrazione di originali istrumenti dal 1809 al 1851, IX, fasc. 1810).

[12] Riguardo al complesso problema delle fasi attraverso le quali il documento notarile giungeva alla sua redazione finale, il testo di riferimento indispensabile resta ovviamente: G. COSTAMAGNA, La triplice redazione dell’instrumentum genovese, Genova, Società Ligure di Storia patria, 1961; per l’età moderna si rimanda soprattutto a L. SINISI, Il documento notarile genovese in età moderna, in Formulari e cultura giuridica notarile nell’età moderna. L’esperienza genovese, Milano, Giuffré, 1997, pp. 99–126.

[13] A questo proposito cfr. soprattutto SINISI, Il documento notarile, pp. 119–126. Scrive l’autore: «Quello che emerge in maniera sempre più chiara nei secoli XVII e XVIII è il ruolo centrale dell’instrumentum, inteso come documento originale conservato dal notaio nella filza e munito di valore legale» (p. 121).

[14] G. NICOLAJ, «Originale, authenticum, publicum»: una sciarada per il documento diplomatico, in Charters, Cartulaires, and Archives: The Preservations and Trasmission of Documents in the Medievale West, Proceedings of a Colloquium of the Commission Internationale de Diplomatique (Princeton and New York, 16–18 Septembre 1999, by A. J. KOSTO and A. WINROTH, Toronto, Pontifical Institute of Mediaeval Studies, 2002, pp. 8–21 (p. 21); ora riedito all’interno della rivista digitale dell’Università di Pavia «Scrineum», all’indirizzo: http://scrineum.unipv.it/biblioteca/nicolaj2.html. Per alcuni esempi in area valtellinese e nelle terre bormiesi, vide infra.

[15] Per le scritture su membrana estratte dai protocolli di imbreviature, vide infra.

[16] A tale proposito si richiamano sin d’ora le parole del funzionario Mazzetti della Corte d’appello di Milano, il quale nel riferirsi alle estrazioni in pubblica forma, dichiara che esse, «essendo di pertinenza del privato, non cadono sotto la disposizione dell’articolo 150 del Regolamento notarile», vide infra nota [53] e testo corrispondente.

[17] Il protocollo più antico appartenente ad un notaio bormiese che risulta attualmente conservato è quello di Bernardo Grassoni e comprende documenti dal 1421 al 1433: ASSo, AN, b. 112.

[18] Numero 30 nell’Elenco del 1833, numero 6 nella collocazione fisica attuale.

[19] In quel documento Giacomo fu Giovanni Ferrari di Cepina vende un appezzamento sito in territorio di Cepina nel luogo ove dicesi all’Isola, detto prato dell’Isola, confinante a mattina con l’Adda. Numero 1349 nell’Elenco del 1833, numero 209 nella collocazione fisica attuale