La disciplina contrattata.
Vescovi e vassalli tra Como e le Alpi nel tardo Medioevo.

Milano, Edizioni Unicopli, 2000

INDICE

Introduzione

Parte prima VESCOVI E CONCESSIONARI: L’AMMINISTRAZIONE DEL PATRIMONIO VESCOVILE
Premessa

  1. La definizione giuridica del rapporto: feudi e locazioni
  2. De mansuetudine consueta. La disponibilità dei beni feudali da parte dei vassalli
  3. «Volens d. episcopus sibi et ecclesie sue de bono et utili vassallo providere». La disponibilità dei beni della mensa da parte dei vescovi
    1. Franchino Rusca e il suo vescovo. L’uso politico del patrimonio della mensa
    2. L’uso clientelare del patrimonio della mensa
  4. L’amministrazione della mensa tra XIV e XV secolo
    1. La scoperta della legalità
    2. La percezione dei redditi
  5. Vescovi e vassalli nella Chiesa del Rinascimento

Parte seconda
I VASSALLI VESCOVILI: FAMIGLIE ARISTOCRATICHE E COMUNITÀ IN VALTELLINA E VALCHIAVENNA

Premessa

  1. L’antica aristocrazia valtellinese
  2. Le famiglie dell’aristocrazia urbana
  3. Le famiglie nuove
  4. I forenses
  5. I comuni rurali
  6. «In medio nationis perverse». Il possesso dei beni della mensa e il ricambio dei concessionari nel quadro dei rapporti tra città e contado

Parte terza
I VASSALLI VESCOVILI: LE FAMIGLIE GUELFE DI SONDRIO E MONTAGNA

Premessa

  1. I Capitanei di Sondrio
    1. I Capitanei di Sondrio nel XIV secolo
    2. Il potere locale di Francesco Capitanei di Sondrio
    3. La dissoluzione della parentela
  2. I de Piro
    1. Il radicamento locale
    2. I de Piro e il vescovo Benedetto da Asnago
    3. Lo scontro con i Capitanei di Sondrio
    4. Il declino
  3. Adherentes et sequaces. Altre famiglie guelfe di Sondrio e Montagna
    1. Gli Interiortoli
    2. I Capitanei di Scalve
    3. I de Pendolasco
    4. I Beccaria
  4. Il potere locale di Antonio Beccaria
    1. Dos magna et amplia. L’eredità di Francesco Capitanei di Sondrio
    2. La chiesa vescovile vista da Sondrio: l’investitura feudale, il castello di Masegra, la legittimità successoria
    3. La dote immateriale
    4. Gli esordi politici di un capoparte anti–visconteo
  5. Possesso feudale, identità agnatizia e memoria genealogica

PRESENTAZIONE – English version

Importanti ricerche recenti hanno profondamente rinnovato lo studio delle pratiche politiche, portando l’attenzione dai centri produttori di norme e dai dispositivi di controllo, ai soggetti e alla loro iniziativa. Anche alle forme del governo ecclesiastico si può applicare un simile approccio, che indaghi non tanto la crescente razionalità dell’amministrazione patrimoniale o l’introduzione di più saldi strumenti di disciplinamento, quanto le tensioni che accompagnavano la negoziazione delle norme, la loro manipolazione da parte degli attori sociali, la loro rielaborazione in specifici contesti locali.
La gestione dei beni delle chiese, spettanti all’alto dominio degli enti secolari o regolari, ma affidati a concessionari, era un terreno privilegiato di interazione tra ecclesiastici e laici, che stabilivano un denso rapporto segnato da conflitti e compromessi. Proprio questo complesso dialogo è al centro dell’indagine condotta sul patrimonio della chiesa vescovile di Como nel XIV e XV secolo. L’episcopio possedeva infatti castelli, terre, pascoli, boschi, diritti di decima e pedaggi disseminati nell’intera diocesi e conferiti in feudo o in locazione a tutte le maggiori famiglie della città e del territorio.
Nel XV secolo i presuli e i loro vicari si impegnarono per renderne più efficiente l’amministrazione: imposero un rispetto più rigoroso della disciplina feudale; approntarono un più stabile e sicuro meccanismo di raccolta dei censi; promossero importanti innovazioni nella pratica documentaria che consentirono alla curia di capitalizzare informazioni utili per una vigile gestione patrimoniale; vollero estendere l’attività del tribunale diocesano, la cui attività appare in precedenza molto discontinua, a tutte le controversie originate dai possessi della mensa, realizzando un più saldo controllo giudiziario dei concessionari.
Il fatto però che il funzionamento della curia sia diventato più regolare nel ‘400, e che siano stati senza dubbio compiuti i primi passi nella direzione di quella riorganizzazione della proprietà ecclesiastica realizzatasi su vasta scala in età moderna, non esaurisce la complessità delle trasformazioni verificatesi. Quello stabilito tra l’autorità ecclesiastica e i detentori delle sue ricchezze era e rimase un rapporto asimmetrico, sbilanciato a favore dei locatari e soprattutto dei vassalli, che poterono continuare a guardare alla chiesa vescovile come ad un centro che dispensava risorse materiali e simboliche facilmente accessibili. Proprio per questo, a costituire il principale impulso dei mutamenti intervenuti tra ‘300 e ‘400, furono le scelte e i tentavi fatti da famiglie cittadine, parentele rurali, esponenti dei patriziati borghigiani e comunità per appropriarsi di queste risorse.
Innanzi tutto i medesimi dispositivi di controllo promossi dai vescovi ebbero spesso una valenza ambigua, poiché l’iniziativa degli attori sociali era in grado di appropriarsene al punto da mutare i loro significati, e da piegarli, lontano dalla città e dal vertice istituzionale, a valori e obiettivi affatto diversi da quelli per cui erano stati pensati. I vincoli del diritto feudale, che servirono effettivamente ai presuli per esigere comportamenti più docili da parte dei concessionari, offrirono d’altro canto ai vassalli il linguaggio per una definizione più forte dell’ideologia aristocratica della coesione agnatizia e della continuità genealogica. La restrizione del diritto di trasmissione del feudo ai soli discendenti maschi del vassallo e l’esclusione delle eredi femmine (sancita nel XIV secolo), ad esempio, fu voluta dai vescovi per aumentare la loro probabilità di rientrare in possesso dei benefici, ma d’altro canto servì pure a codificare, in seno alle agnazioni aristocratiche, una rappresentazione del lignaggio che emarginava le donne nel possesso e nella memoria familiare. Pure la nuova centralità assunta dal tribunale episcopale, i cui interventi divennero più numerosi e sistematici nel ‘400, fu un fenomeno bifronte: da un lato, consentì un controllo più stretto dei vescovi sui concessionari; dall’altro, incrementò l’offerta disponibile in un contesto di accentuato pluralismo giudiziario. Spiazzando i progetti normalizzatori concepiti in curia diocesana, i ricorsi strumentali al foro ecclesiastico da parte degli esponenti delle famiglie nobili impegnati in contenziosi, lo trasformarono in una delle arene del conflitto aristocratico.
Inoltre le iniziative dei vescovi non poterono o non intesero comprimere l’ampia libertà con cui i concessionari godevano dei beni dell’episcopio loro affidati: i vassalli e i massari vantavano sui loro possessi diritti difficili da scalfire, che impedirono ai presuli di utilizzare le risorse del vescovato a piacimento, a vantaggio dei loro parenti, clienti e così via. Per questo motivo, nei molti passaggi di mano, da vecchi a nuovi concessionari, delle terre e delle decime della mensa vescovile, sarebbe vano cercare le tracce della fortuna di uomini legati ai presuli e al potere politico, capaci, grazie alle entrature di cui godeva in curia e a corte, di accaparrarsi le ricchezze della Chiesa (come avvenne in altri casi, nella stessa Lombardia o in Veneto). Invece, nelle vicende di questo patrimonio, si impressero, piuttosto che i progetti episcopali e i loro disegni clientelari e nepotistici, cambiamenti sociali e politici che intervennero a livelli più profondi e sotterranei.
Le vendite e gli acquisti dei benefici feudali rivelano in primo luogo una radicale svolta tardo–medievale, segnata da una complessiva ridistribuzione della ricchezza. Infatti, la crisi trecentesca e i rivolgimenti politici quattrocenteschi indebolirono le posizioni di un’antica nobiltà rurale e – fatto eccezionale nell’Italia settentrionale – determinarono un sensibile arretramento dei possessi dell’oligarchia urbana nel contado. Per contro, in Valtellina, Valchiavenna, sul Lario e in Ticino, si affermarono forze imprenditoriali squisitamente locali, sempre più rappresentate nel gruppo dei vassalli vescovili: a comprare quanto gli esponenti dell’aristocrazia della città e delle valli alienavano, furono i comuni rurali, che si impadronirono di decime e pascoli, e famiglie e individui estranei ai tradizionali gruppi privilegiati (talvolta anche immigrati recenti, originari di altre zone rurali). Questi ultimi, arricchiti spesso dal prestito di denaro, dall’allevamento e dal commercio su piccola scala, e capaci di conseguire posizioni socialmente prestigiose grazie alla professione notarile, all’inserimento nei ranghi dei patriziati dei borghi alpini e alle cariche comunitarie ricoperte, investirono anche nell’acquisizione di arativi, vigne, boschi, case e altre componenti del patrimonio vescovile. Così il rapporto tra Como e il suo territorio si indirizzò verso esiti molto diversi da quel predominio politico ed economico della città che caratterizza il classico modello padano; contemporaneamente la società alpina lombarda assunse i connotati che la caratterizzeranno a lungo: lo sfruttamento delle risorse del territorio sostanzialmente indipendente e in buona misura comunitario, che scongiurò la penetrazione di capitali esterni e specialmente urbani.
Su un piano diverso da quello delle strategie economiche, si possono individuare ulteriori fattori di dinamismo – che contribuirono al rinnovamento del gruppo dei vassalli episcopali e alla ridistribuzione del possesso feudale –, nell’iniziativa politica, mediata dall’appartenenza faziosa, e nelle pratiche del conflitto aristocratico. La concorrenza tra famiglie guelfe e ghibelline o, più spesso, dello stesso colore politico, conduceva a repentini, talvolta traumatici, passaggi di beni patrimoniali, ivi compresi i feudi vescovili. Inoltre, tra la chiesa di Como e gli uomini e le parentele che si collocavano ai vertici degli schieramenti, vi erano rapporti continui e variegati. In frangenti eccezionali (negli anni precedenti l’affermazione del dominio visconteo e durante la crisi in cui lo stato di Milano fu precipitato dalla morte di Gian Galeazzo Visconti), le solidarietà di fazione poterono unire, con robusti raccordi clientelari, presuli politicamente molto schierati e settori della società urbana e rurale; così alcune famiglie dilatarono le proprie fortune grazie a investiture feudali e a locazioni che premiavano la loro lealtà di parte. In condizioni meno eccezionali, comunque, coloro che detenevano le leve del potere locale si rivolgevano opportunisticamente alla chiesa vescovile, per ricavarne la legittimazione di transazioni e possessi. Una mossa come quella di Antonio Beccaria, capo della fazione guelfa valtellinese, che, privato di un castello dal duca di Milano, riuscì comunque a conseguire un titolo di possesso alternativo, ottenendo nel 1437 l’investitura in feudo vescovile della medesima fortificazione, vale ad esemplificare come anche le iniziative dell’autorità episcopale, come quelle di tutti i centri del potere laico ed ecclesiastico, fossero soggette ad un riutilizzo locale e strumentale ad opera degli attori sociali attivi in periferia.

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