Passeggiate morbegnesi

Il palazzo Malacrida

È una costruzione discreta, strategicamente posta all’incrocio tra la direttrice per Regoledo, e quindi per Como e Milano, e la vecchia via Priula verso Venezia, nel rione Scimicà.

Le architetture del palazzo sono tradizionalmente riferite all’impronta borrominiana, per le fughe prospettiche che fondono le strutture con le decorazioni e per le decorazioni che dilatano le strutture, ingannando l’osservatore sulle reali misure degli ambienti. Ma si ispirano anche agli edifici della tradizione veneziana, con facciate severe, mentre gli interni alternano fasto baroccheggiante ed aggraziato gusto rococò.
Progettista e coordinatore dei lavori fu Pietro Solari da Bolvedro, quanto di meglio offriva il mercato artistico.

Il visitatore è accolto da un atrio con soffitto a vele generate da archi ribassati sorretti da due colonne di granito; i toni pastello delle volte ricamate con motivi floreali a stucco bianco suscitano un senso di distesa serenità. Lungo le pareti, sette porte (due sono finte porte dipinte) ritmano lo spazio e reggono gli stemmi. Quello dei Malacrida è proprio di fronte all’ingresso: nella fascia superiore dell’arma, in campo oro, un leone mostruoso tiene alta una spada affiancato da un castello merlato alla guelfa; pali d’oro e d’azzurro sono nella fascia inferiore. Malacrida: atrio È lo stesso stemma gentilizio che compare sulla pietra sepolcrale di Giovanni Malacrida detto il Bajo oppure il Rosso, che ottenne dai Visconti l’investitura del feudo di Musso agli inizi del 1400.
La serie degli stemmi elenca le famiglie imparentate per matrimonio con i Malacrida: a sinistra c’è lo stemma (grifo nero in campo oro) di Doralice Greco di Mello, madre di quel Bartolomeo III che, nella seconda metà del ’600, si era trasferito da Caspano a Morbegno per esercitare il Diritto.
Poi lo stemma dei Vicedomini, che presenta su fondo oro una sella (dal capostipite del ramo di Cosio, Atto detto Cavalcasella), un castello turrito merlato alla ghibellina e un’ancora (che forse allude all’ origine lariana della famiglia).
Segue lo stemma di Maddalena Paravicini (cigno bianco/argento in campo rosso), che sposò Giampietro, colui che nel 1758 riprese i lavori di costruzione dell’attuale palazzo, iniziati da Bartolomeo III ma più volte interrotti per difficoltà finanziarie.
A sinistra dello stemma dei Malacrida, per chi guarda, è l’arma gentilizia del Marchese Amilcare Paolucci di Modena, sposo di Maddalena; a destra è l’arma del nobile morbegnese Martino Mariani, sposo di Ida figlia di Ascanio II, ultimo dei Malacrida di Morbegno.
Gli stemmi continuano a destra con quello di Eugenia Malaguzzini, moglie di Ascanio II ed ultima discendente di ser Antonio Malaguzzini: l’arma presenta un bue dalle corna aguzze tra un’aquila nera ed una fascia di tre bande azzurre in campo argento.
Segue lo stemma di una Peregalli di Delebio che sposò Ascanio I a cui diede ben ventiquattro figli, e tra questi Giampietro, ‘costruttore’ del Palazzo. Malacrida: salone d’onore I Peregalli presero il cognome da un certo ser Antonio detto Pelegalus, originario di Erla (Rogolo) e l’arma parlante bipartita presenta in alto un’aquila nera ad ali spiegate e nella fascia inferiore un gallo rivoltato di nero tenente nel becco un ramo fruttifero di una pera d’oro.
Conclude la serie degli stemmi di destra l’arma di Elisabetta Gatti di Teglio, moglie di Bartolomeo III: su fondo rosso, un pino dalle fronde verdi è sostenuto da due gatti d’argento che si guardano.

Negli anni tra il 1761 ed il 1762, sotto l’attenta guida di Pietro Solari, i pittori Cesare Ligari e Giampietro Romegialli, il quadraturista Giuseppe Coduri di Como detto il Vignoli, il paesaggista milanese Giuseppe Porro, i pittori d’ornato Cristiano Dieni di Morbegno e Carlo Fiori di Como realizzano quell’effetto di splendore, di grazia, di movimento, che è l’apparato decorativo del palazzo e, particolarmente, del salone d’onore.

Giampietro Romegialli, morbegnese, appena ventitreenne e reduce dall’apprendistato romano, Malacrida: Aurora dipinse le sue prime opere valtellinesi. Al piano terra, sul soffitto dello studiolo, affrescò il medaglione de L’Aurora, tema già diffuso nelle decorazioni barocche e che prolunga la sua vitalità nell’affresco settecentesco: Aurora dalle rosee dita allontana le tenebre per far posto alla luce in un’allegorica trasposizione illuminista.
Nel medaglione sulla volta dello scalone, poi, è raffigurato Ganimede che, rapito dall’aquila, lascia la terra per raggiungere l’Olimpo. Zeus lo attende ansioso: sul tavolo è già pronta la coppa per il nettare e l’ambrosia. I colori vigorosi scelti dal Romegialli sembrano rallentare quel volo perché si possa ammirare meglio e più a lungo la straordinaria bellezza del giovinetto.
In una sala dai raffinatissimi stucchi, adiacente al salone d’onore, dipinse i ritratti monocromi di Malacrida Tasso, Petrarca, Chiabrera, Metastasio e Goldoni (forse suggeriti dal canonico Giovan Simone Paravicini, ben aggiornato sulla cultura contemporanea se si osserva che Metastasio e Goldoni erano viventi). Più tardi, nella stessa sala, il pittore dedicherà il tema nuziale di Imeneo e Cupido in catene del paracamino al matrimonio tra Ascanio II ed Eugenia Malaguzzini.

Giuseppe Porro eseguì quadrature e paesaggi nella ‘Galleria’, dove erano raccolti cinquanta quadri a tema sacro, mitologico, di genere, e ritratti di famiglia. Ascanio II ne dà l’elenco nelle sue Memorie storiche e genealogiche della famiglia Malacrida di Morbegno, manoscritto oggi conservato in originale presso la Biblioteca civica della medesima località.

Malacrida: gatto Giuseppe Coduri preparò le finte architetture, dipinte per accogliere i medaglioni dei soffitti. Con tratto sicuro e pennellate incisive firmò un capolavoro di finzione scenica, non ridondante, convincente: a Est ed a Ovest le pareti del salone ‘si aprono’ verso altre sale illuminate da alte vetrate; a Nord le vere finestre; a Sud due finte finestre: a sinistra un gatto nero si affaccia dolce e curioso, a destra la cioccolatiera di rame si raffredda sul davanzale.

Ma nel palazzo è «degno di particolare ricordo il grande salone con il soffitto dipinto a fresco da Cesare Ligari che vi presentò il trionfo delle scienze con bella composizione, larghezza di disegno e armonia vivace di colore …» (Damiani).
Giampiero Malacrida avrebbe voluto come decoratori i fratelli Torricelli di Lugano ma non fu possibile l’accordo sui costi di esecuzione. Fu Pietro Solari, in quel periodo impegnato presso «i cugini Peregalli di Delebio», a suggerire il nome di Cesare Ligari, buon pittore, non più giovanissimo, esoso ma che si sarebbe accontentato pur di togliere l’incarico ai Torricelli. Si accordarono su cinque ‘plafoni’ per sessanta zecchini. Dei cinque previsti, tre non furono mai eseguiti perché il Malacrida revocò l’incarico tra le proteste di Cesare. La controversia durò a lungo e non si sa come andò a finire.
Malacrida: le tre grazie Le tre Grazie dal cielo sorridono agli uomini. Aglaia, Eufrosine, Talia sono disposte nel modo convenzionale della rappresentazione pittorica, due di fronte e una di spalle, ma niente raffinate crinoline o perfette nudità. Vi è invece il persistere di un senso di arcadica nostalgia.
Cronologicamente, il medaglione del salone d’onore fu affrescato per primo. Il tema illuministico del Trionfo della Verità nelle Arti e nelle Scienze sopra l’Ignoranza (enunciazione formulata definitivamente da Laura Meli Bassi) vede Cesare Ligari finalmente libero di librarsi in quei cieli dipinti, milanesi e veneziani, che tanto aveva ammirato e dei quali aveva sempre nostalgia: l’ambiente della committenza provinciale non apprezzava ancora gli equilibri instabili delle decorazioni rococò. E si mise all’opera con fervore: la spirale delle figure si allontana cromaticamente verso il cielo, dove la Verità ormai appena traspare in uno spazio chiarissimo. L’Ignoranza, donna bendata e sgambettante, precipita mentre la capacità rappresentativa dell’artista raggiunge il vertice più alto: uno scorcio pittorico degno delle cadute quattrocentesche dei dannati di Luca Signorelli a Orvieto, delle cadute degli eretici di Lorenzo Lotto a Trescore e altrove, del soffitto di Pellegrino Tibaldi a Bologna, dei virtuosismi dei decoratori barocchi e, infine, di Giovan Battista Tiepolo che, proprio nel 1761, lascerà definitivamente l’Italia per Madrid. Curiosamente, nello stesso periodo Cesare Ligari abbandonerà avvilito e scontento l’esperienza valtellinese per ritirarsi a Como dove morirà, come il Tiepolo, nel 1770.

La visita del palazzo si conclude con «il giardinetto pensile dalle amenissime vedute sui monti e sulla valle» (Orsini), ma sorprende ancora e sempre di poter affermare che il durare del passato rende il presente molto meno noioso.


Evangelina Laini

Fotografie di Vincenzo Martegani (<www.martegani.it>)

Data di pubblicazione: 05 novembre 2006




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