Per nos hodie consecrata

«Reędificari et reparari facere inceperant»
La fabbrica della chiesa nuova nell’archivio della confraternita.

Era intitolata ai Santi Lorenzo e Bernardo di Chiaravalle la chiesa che nel 1425 risultava essere terminata presso la località Crocetta di Morbegno. Lo testimonia l’elenco delle chiese del territorio parrocchiale scritto dal rettore allora in carica, Bernardo degli Uberti di Valsassina; lo aveva compilato in risposta al mandato del vescovo di Como, Francesco Bossi (1420–1434). E a volerla edificare, negli anni di poco precedenti, era stato probabilmente proprio lui, unitamente ad alcuni suoi parrocchiani morbegnesi. Infatti la costruzione risulta effettuata «ex industria venerabillis et honesti domini presbiteri Bernardi de Ubertis de Vallesaxina (…) et quamplurium aliarum bonarum personarum habitantium in ipso comuni» (ASCAM, Pergamena n. 4). La qualifica dei compartecipi, nominati come buone persone del luogo, si riferisce forse al gruppo degli associati della confraternita la quale –e ciò è certo– nel corso del secolo XV fece di questa chiesa il punto di riferimento e presso di essa stabilì la propria sede: si tratta dei battuti della Madonna di Morbegno. La chiesa dei Santi Lorenzo e Bernardo era luogo delle loro riunioni; presso di essa si conservavano con venerazione numerose sacre reliquie; visitandola, grazie a concessioni di pontefici, si potevano lucrare indulgenze e privilegi, in vita e in morte, che impreziosivano e premiavano l’appartenenza stessa al sodalizio confraternale.

Tuttavia, prima che fosse trascorso un secolo, gli spazi di quella chiesa si dimostrarono insufficienti e inadeguati per le attività dei battuti. Essi avvertirono fortemente l’esigenza di procedere ad ampliamenti funzionali alle loro attività nonché ad una riqualificazione della sede che avrebbe assunto, anche sotto il profilo architettonico, una fisionomia più conforme al gusto aggiornato.

Un breve pontificio del 1522 di papa Adriano VI, conservato inserto in un processo del 1523, dona testimonianza dell’esigenza avvertita e condivisa dai confratelli in ordine a tale riedificazione e del fatto che essi avevano dato pertanto il via alla fabbrica della chiesa nuova («reędificari et reparari facere inceperant»): ciò si era reso necessario «pro orationibus dicendis et aliis eorum piis operibus exercendis». Il documento del processo del 1523 risulta attualmente perduto presso l’archivio della confraternita, ma sappiamo che era contrassegnato –certo non casualmente– dalla segnatura numero 1 nell’«Inventario delle scritture di raggione della veneranda archiconfraternita di Maria Vergine delle Grazie di Morbegno» redatto dal notaio e confratello Carlo Giacinto Fontana nel 1725. Il primato in ordine alla segnatura si spiega per il motivo che esso costituiva la base giuridica per garantire, una volta ottenuta, quell’autonomia di esercizio cultuale e amministrativo che avrebbe caratterizzato il sodalizio nei secoli successivi. All’interno degli atti processuali, in relazione all’edificazione della chiesa nuova la confraternita appare chiaramente quale protagonista nelle scelte: committente di numerose opere d’arte e sostenitrice dell’impegno economico.

Sono le stesse carte conservate nell’archivio della confraternita ad attestare il forte impegno finanziario sostenuto dal sodalizio al chiudersi del XV e nel primo scorcio del XVI secolo. Nel contempo esse fanno luce sui rapporti intercorsi tra i sodali committenti e gli artisti, o gli artigiani, impegnati nella fabbrica della chiesa e del capitolo.

Per una gestione razionale delle risorse furono organizzate, in primo luogo, le scritture contabili. Pur essendo andato perduto un prezioso registro della fine del Quattrocento, il cosiddetto quaternus veterum, due registri del principio del secolo successivo restano ad attestare questo rinnovato impegno: il liber rationum (1512–1559), in continuità con il quaternus veterum, che segnala sulla facciata di sinistra il gettito delle entrate e a destra quello delle uscite, intestate ai due canepari in carica della confraternita; inoltre, il liber credentiarum (1536–1556) ci rende note le registrazioni contabili ripartite per pratiche: le poste sono intestate a coloro con i quali la confraternita aveva scambio di prestazioni e compensi. Così come strutturato questo registro contabile appare quale vero e proprio registro della fabbrica, che testimonia e documenta tutti i rapporti in corso nella prima metà del ‘500 con gli artisti attivi presso la nuova chiesa intitolata all’Assunta. Vi sono pagine del liber credentiarum che sono state trascritte ed oggi sono ben note (come quelle relative ai rapporti con Gaudenzio Ferrari); tuttavia numerose altre restano da esplorare.

E accanto ai registri contabili, inoltre, si sono conservati alcuni documenti su supporto membranaceo che attestano le transazioni effettuate: testamenti e legati, compravendite, affitti e locazioni. Purtroppo quanto è giunto sino a noi, ad un riscontro sistematico con l’inventario del Fontana, risulta essere soltanto una piccola parte delle scritture che erano state prodotte: i documenti quattrocenteschi, oggi riuniti nel Diplomatico secondo un uso consolidato da ormai due secoli, dovevano essere ben più numerosi.

Ma non furono soltanto le scritture contabili ed amministrative ad essere oggetto di ripensamento, utile anche a fini pratici: è l’archivio stesso, nella sua complessità e globalità, che pare vivere in quei medesimi anni –analogamente agli edifici– un parallelo processo di ‘ristrutturazione’, di riorganizzazione (o di organizzazione). E tale dato non è solo la risultante di una nostra percezione, in virtù del fatto che le scritture giunte sino a noi palesano i caratteri di progressiva consistenza e di decisa stabilità; è piuttosto un dato oggettivo fondato sulla constatazione che, proprio in questi anni, hanno avvio delle serie documentarie strutturate in modo efficace ed efficiente, come si è avuto modo di ricordare relativamente alle serie dei registri della contabilità.

Ma la scrittura, oltre che essere a servizio di una funzionale gestione amministrativa, diviene importante strumento mediatore per finalità che oltrepassano la mera pratica gestionale.

In tale senso, una attenzione particolare va riservata alle pergamene ‘esposte’, ovvero a quelle membrane che sin dal loro nascere erano destinate ad essere appese all’interno della chiesa (altre volte nella sacrestia) affinché potessero essere lette, o almeno ‘viste’. Nel Settecento, all’interno del già citato inventario del Fontana, è testimoniata l’esistenza di cinque pergamene esposte nel santuario dell’Assunta. Oggi solo tre di esse sono superstiti (ASCAM, Pergamene nn. 8–10). Queste pergamene, che recano ancora i fori dei chiodi, custodiscono dei racconti a certificazione dell’accadimento di fatti miracolosi avvenuti presso la chiesa, ad opera della Madonna, effigiata nell’affresco ora inquadrato nell’ancona.

Non è questa la sede per discutere o soppesare la veridicità o meno degli interventi miracolosi, consistenti nella guarigione di malattie. Ritengo invece importante rimarcare –sia pure in termini di estrema sintesi– due aspetti fondamentali di queste scritture: quello finalizzato alla produzione della memoria dei prodigi e quello concernente le modalità della loro trasmissione.

Un prima domanda: perché le narrazioni dei miracoli furono fissate in forma scritta? quale motivo ha portato a tradurre la narrazione orale in scrittura? Una seconda questione: quali fenomeni sono sottesi e poi messi in moto da questi tipi di scrittura?

Quanto al primo aspetto è da tenere presente il particolare e radicato tipo di rapporto degli uomini del Quattrocento –e non solo– con il sovrannaturale. Il contesto era tale da far accettare l’assoluta normalità del miracolo, il quale aveva il suo àmbito di manifestazione nel quotidiano. Ma nello stesso tempo è chiaro l’intento (estensibile a tutti i fenomeni miracolosi dell’epoca e non solo a quelli dell’Assunta di Morbegno) di ‘imbrigliare’ –per così dire– il prodigio: lo si voleva razionalizzare entro i processi certificativi del diritto. Ciò spiega la naturalezza della traduzione in scrittura degli eventi ritenuti sovrannaturali.

Ma a qual fine, pertanto, certificare il miracolo? Per oggettivizzarlo, per dargli qualifica di fatto storicamente accertato. Dicendo ciò non si promuove una attuale interpretazione dissacrante: si tratta solo di una legittima constatazione critica, aliena da giudizi riferiti all’epoca, e quale è documentabile anche attraverso le testimonianze morbegnesi.

Osserviamo più da vicino le pergamene dei miracoli relativi al santuario di Morbegno. Anche se esse non presentano sottoscrizione notarile (come nel caso del libro dei miracoli di Tirano), si colgono tuttavia numerosi elementi che tendono a fare emergere modalità tipiche delle scritture dotate di publica fides: dati sui protagonisti, sui luoghi, sui tempi. I racconti dei miracoli narrati –lo si nota subito– presentano una struttura fissa, un formulario stabile. Il miracolo in queste scritture appare davvero certificato. Così emerge con maggiore chiarezza questa intersezione tra naturale e sovrannaturale, tra fatto privato e fatto di risonanza e di portata sociale.

Ed è questa riflessione ad introdurre, in modo naturale, qualche considerazione circa il secondo aspetto, ovvero a mettere in luce quanto concerne la conservazione delle scritture. Proprio le modalità funzionali al tramandare i miracoli dicono tante cose circa la volontà di coloro che hanno scritto e che hanno voluto la loro certificazione.

Esiste una certa differenza tra i casi che vedono un liber miraculorum, oppure una membrana di narrazione come quelle ora in esame, conservati all’interno di un archivio, oppure –come talora accadeva– racchiusi accanto al corpo nella tomba del santo o accanto a reliquie, oppure ancora se esposti sul muro di una chiesa, come all’Assunta.

Scrivere la memoria dei miracoli e fare sì che questa memoria sia pubblicamente fruibile evidenzia la volontà che un fatto privato diventi un fatto pubblico: quando il miracolo diventa noto si propone come fatto sociale. E la pubblicità conferitagli palesa la intenzionalità di conferire risonanza all’evento: accerta che in quel luogo e in quel tempo, nei confronti di quegli uomini, il sovrannaturale si è manifestato.

Queste riflessioni –per quanto sintetiche– circa i modi in cui le scritture vennero realizzate e la constatazione della scelta di esporle a pubblica fruizione fanno chiaramente emergere come il ‘fatto’ del miracolo fosse un evento intorno al quale ruotavano relazioni sociali, giuridiche, religiose, scelte personali dei singoli e indirizzi di gruppi, come le confraternite.

La promozionalità divulgativa di questi fatti miracolosi si affiancava, in modo energico e persuasivo, con tutti gli sforzi miranti al ‘lancio’ della confraternita e della sua chiesa.

E in chiara consonanza con quanto sinora riferito si pongono pure le pergamene esposte il cui contenuto era un elenco di reliquie, oppure il racconto di visioni straordinarie considerate fondative di privilegi concessi alla chiesa. Vi sono presso l’archivio del santuario anche questi tipi di scritture, tutte risalenti alla fine del XV secolo (ASCAM, Pergamene nn. 3, 4). È del tutto palese la volontà di qualificare e in un certo senso di nobilitare uno spazio sacro: ivi l’intersezione fra naturale e sovrannaturale era viva e ‘documentata’.

La riqualificazione delle scritture contabili, di quelle amministrative, della prova dei diritti, si interseca dunque con il forte impegno dedicato alla stesura delle scritture certificative, in ordine alla qualificazione dello spazio sacro e dello status associativo: segni di un contesto sociale carico di progettualità e di fermenti, nonchè indice di una percezione del sacro avvertito come profondamente presente. Senza trascurare l’aspetto di una ricerca di prestigio da parte della confraternita e la garanzia di durata dei privilegi ottenuti.

Mi piace concludere riproponendo l’accostamento tra il restauro della chiesa ed il bisogno di riorganizzare le carte: le scritture sono ‘ripensate’ perché alcuni connotati del sodalizio confraternale sono mutati. Sono maturati, simultaneamente, una esigenza di razionale pianificazione in ordine ai restauri e un impegno per ‘rendere visibile’ in termini di prestigio una identità istituzionale.

Così appare anche del tutto plausibile la chiara volontà, emergente dalla carte, di attivare un plesso di contenuti da comunicare, l’evidente impegno di assecondare un bisogno che porta a cercare aggiornate e fascinose soluzioni nel linguaggio delle immagini, come nel ciclo delle decorazioni dell’ancona: la chiesa nuova diviene centro attrattivo di tanti messaggi, da vedere e da leggere.

Rita Pezzola



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Note bibliografiche