In confidenza col sacro

Statue vestite al centro delle Alpi

a cura di Francesca Bormetti,
fotografie di Massimo Mandelli,
Catalogo della mostra (Sondrio, 10 dicembre 2011 – 26 febbraio 2012)

Como – Sondrio, Fondazione Centro Studi “Nicolò Rusca” – Credito Valtellinese – MVSA Museo valtellinese di storia e arte, 2012, pp. 511, ill. b/n e colori.

La copertina del libro


La mostra allestita a Sondrio e il ponderoso volume che la accompagna hanno riscosso consenso e interesse da molteplici parti e le ragioni di questo successo risiedono nell’aver riunito in un’unica occasione espositiva ed editoriale la ricerca di manufatti sinora pressoché dimenticati e l’indagine multidisciplinare sul complesso fenomeno dei simulacri mariani da vestire. Se l’assunto appena espresso dà merito dell’impegno della curatrice e dell’équipe di studiosi che hanno firmato i saggi e le schede nel volume, pure ci preme dare a chi legge qualche indicazione esplicativa e orientativa, non solo per migliore comprensione di questa recensione, ma anche per dimostrare ancora una volta la ricchezza degli spunti e degli approfondimenti che la mostra sondriese ha messo sul tavolo di lavoro degli storici, e degli storici delle arti in modo particolare.
In via preliminare, vogliamo porci una domanda solo in apparenza banale: cosa si intende per statua “da vestire”, o statua “vestita”? L’opportunità di tornare, sia pure brevemente, ad una definizione complessiva si giustifica nell’estrema varietà delle manifestazioni cui si va incontro nello studio di questi manufatti. Una statua “da vestire” è un simulacro sacro, destinato alla devozione di santi, sante e madonne – dove la prevalenza statistica e culturale dell’elemento femminile e nella fattispecie mariano è assoluta –; simulacri le cui fattezze erano date dall’impiego di parti scolpite o modellate in materiali diversi – dal legno alla cartapesta, dallo stucco alla terracotta – accostate a parti solo grossolanamente sbozzate o composte di intelaiature lignee o metalliche che dovevano sorreggere un corredo tessile più o meno ricco e prezioso. Le origini di simulacri simili è remota, come hanno determinato gli studi antropologici, e rimandano sia pure latamente alle statue crisoelefantine e agli idoli antichi. Se la genesi storica è oggetto di diverse interpretazioni, un elemento si impone come costante: l’abito è elemento a tutti gli effetti integrato alla percezione visiva ed estetica della statua nonché alle sue funzioni cultuali. La vestizione delle statue era momento celebrato da un multiforme concorso di popolo, perlopiù femminile, che ne seguiva e curava ogni passaggio: donatrici, vestitrici, semplici devote eccetera. Complesse quindi le problematiche storico–culturali, religiose, antropologiche, sociologiche, che le statue da vestire pongono e non meno complesse sono le problematiche conservative, dettate dall’accostamento di materiali diversi, con differenti processi di degrado, di sostituzione, di restauro. Pionieristici in queste direzioni di indagine furono gli studi di Riccarda Pagnozzato sull’area lagunare veneta (Madonne della laguna, Roma 1993) e più recentemente numerosi si contano i convegni e le mostre dedicati alle regioni dell’Italia centro–meridionale (si veda la recensione di A. Casati a Vestire il sacro, Bologna 2011, «Critica d’arte», 47–48, 2012). Un po’ a margine sono rimasti invece i problemi legati allo stile: le ragioni si spiegano facilmente e rispondono ad una dinamica che riflette la legittima aspirazione di dare piena dignità a manufatti di scarsa qualità formale, di esecuzione povera e/o seriale. Nel momento in cui di fronte ai simulacri da vestire sorse la necessità di ricorrere ad un approccio multidisciplinare e più consistentemente antropologico, furono gli aspetti morfologici tout–court e non quelli stilistico–formali ad essere privilegiati. Insomma, la lezione di George Kubler (La forma del tempo, Torino 1976) di «allargare la porta in modo da permettere l’ingresso di più messaggi» ha nettamente spostato il baricentro degli studi sui simulacri vestiti.
È un campo di grande interesse perchè rimette in discussione i fondamenti stessi della ricerca storico–artistica, per sua tradizione concentrata sullo stile e sul riconoscimento in termine di valore della qualità formale. In questa prospettiva l’esperienza maturata nella mostra di Sondrio è esemplare perchè mette in fila tutti gli aspetti problematici dello studio di questa particolare produzione artistica con una ricchezza non trascurabile di materiali.
Ma veniamo dunque alla rassegna della mostra di Sondrio e del suo catalogo. L’indagine si è concentrata sulle vallate alpine e prealpine comprese nei confini dell’attuale provincia, un territorio storicamente legato alla diocesi di Como ma che in età moderna, dal 1512 al 1797, fu aggregato alle leghe svizzere, congiuntura che determinò nel corso del tempo vicende complesse nei rapporti tra istituzioni religiose, potere politico, interessi militari. La condizione di terra di confine è forse una delle ragioni che nel corso dei secoli favorirono la conservazione in numero assai cospicuo delle tradizionali statue vestite, sia a manichino sia scolpite, destinate al trasporto processionale in occasione delle solennità religiose. L’indagine condotta in questa occasione ha permesso di censire oltre ottanta presenze documentate, di cui una quarantina tuttora sopravvissute benché in gran parte alterate da manomissioni o restauri. Si tratta, ad ogni buon conto, di un patrimonio considerevole per la ricchezza delle tipologie e per l’ampio intervallo cronologico, che va dal XVI al XIX secolo, in un territorio come quello lombardo sinora trascurato dagli studi sul tema, se si escludono le pionieristiche aperture rappresentate dal volume sui Fantoni curato da Rossana Bossaglia nel 1974, da alcune schede nel catalogo della mostra milanese sul Settecento lombardo del 1991 e più recentemente dalle ricognizioni di Flavia Fiori sul novarese (2006) e di Alessandra Casati su Pavia e la Lomellina (2007).
Il volume, dopo due densi testi introduttivi di Simonetta Coppa e della curatrice, allinea una serie di contributi dedicati ai molteplici aspetti – come si è già sottolineato: storici, cultuali e materiali – che caratterizzano questi manufatti. In modo particolare Saverio Xeres indaga il rapporto delle autorità ecclesiastiche con la devozione dei manichini da vestire a partire dai primi decenni successivi al concilio tridentino sino all’alba del Novecento, attraverso l’esame dei testi normativi. Elisabetta Silvestrini approfondisce la lettura antropologica del complesso fenomeno della venerazione delle statue da vestire, sottolineando le linee di persistenza o di discontinuità dei riti di vestizione, che in zone periferiche come le valli alpine proseguono ad oggi quasi inalterati. Gian Luca Bovenzi dedica invece ampio spazio allo studio dei corredi tessili, spesso molto ricchi per numero e qualità, che sono il naturale completamento delle immagini mariane vestite, mentre Massimo Mandelli e Sandra Sicoli affrontano, da diverse prospettive, l’incidenza di queste immagini sacre nella cultura moderna e contemporanea. Su questi due contributi ci soffermiamo brevemente poiché ci permettono di ribadire la complessità del tema e di evidenziare nel contempo le eterogenee modalità di approccio. Massimo Mandelli scrive le sue pagine forte dell’esperienza maturata nel corso della realizzazione della ricchissima campagna fotografica che correda il volume e ne trae una riflessione sui fondamenti del mezzo fotografico e sulla percezione degli oggetti fotografati, che scorre dalla prospettiva soggettiva sino a più estreme forme di accostamento visivo (si rimanda il lettore, ad esempio, alla triade certo non usuale rappresentata dalla Madonna del Rosario di Delebio, dalla Biancaneve di Walt Disney e dalla regina Margherita di Savoia, a p. 163). Diverso, come si è detto, il punto di vista da cui avvicina la materia il saggio di Sandra Sicoli, che apre con una suggestione novecentesca (Osvaldo Licini), passa attraverso raffigurazioni a stampa di area fiamminga e chiude con Luca Beltrami e il suo libro sugli arredi sacri lombardi del 1897. Ci sollecita a molti interrogativi la citazione, alla nota 3 di p. 376, di un passaggio di David Freedberg sulla crisi della storia dell’arte come disciplina: «(…) è opinione comune che la storia dell’arte abbia perso, in qualche modo, il senso dell’orientamento. Con il rifiuto dei vecchi modelli del formalismo fini a se stessi, e con la convinzione che non la si può studiare se non si prendono in esame anche alcuni lavori non artistici, la storia dell’arte ha perso la bussola» (originariamente in D. Freedberg, Antropologia e storia dell’arte: la fine delle discipline?, «Ricerche di storia dell’arte», 94, 2008, p. 7). Ora, la necessità e l’urgenza di ibridare gli approcci metodologici, attingendo all’antropologia e alla storia sociale, a quella economica e a quella culturale nonché, così come suggerisce Freedberg, alle scienze della percezione visiva, appaiono circostanze acquisite e gli storici dell’arte ne sono già avvertiti da tempo, da Warburg a Panofsky, da Baxandall a Gombrich a Belting. Tuttavia, se ci poniamo da una diversa prospettiva, non si deve negare all’occhio del conoscitore (usiamo volutamente il termine pur consapevoli delle implicazioni negative che esso trascina) una sua specifica capacità di misura storica. In altre parole: una distinzione tra forme di arte “bassa” e “alta” (la dicotomia è di Freedberg stesso) è pericolosa in termini di consapevolezza storica oltreché di conservazione del patrimonio, eppure essa non manca di avere un suo peso nella valutazione di fenomeni storici: se un’opera palesa qualità formali elevate, ciò implica diverse riflessioni sul contesto di produzione, circolazione e conservazione; se viceversa l’aspetto estetico è irrilevante, sorgono altri parametri storici cui lo studioso si deve attenere, come la ricerca condotta a Sondrio sulle madonne da vestire ribadisce con forza e evidenza.
In questa chiave di lettura il volume in oggetto fornisce infatti materiali di prima importanza e ciò avviene soprattutto allargando l’orizzonte di studio al di fuori dei confini provinciali: esso offre infatti spazio di riflessione ad approfondimenti sulle aree contermini (Brescia, Bergamo, Como e Lecco) e allunga lo sguardo ad altri territori (Milano e Pavia, il novarese), attraverso i saggi di Andrea Straffi, Giovanna Virgilio, Giuseppe Fusari, Silvio Tomasini, Alessandra Casati e Flavia Fiori. Ciò che emerge in tutta la sua evidenza è la capillare diffusione di una modalità di approccio all’immagine sacra che talvolta si tende a ritenere residuale, periferica o limitata agli strati popolari, ma che in epoca storica era invece organicamente integrata alle forme più alte della venerazione.
Dalla lettura dei singoli contributi riuniti emergono episodi di estremo interesse, che non mancheranno di sortire nel tempo supplementi d’indagine, soprattutto in ordine a due tematiche specifiche: la committenza e le botteghe artistiche. Eccezionale è, solo per citare un caso, l’apparato scenico in cui è inserita la statua dell’Addolorata nella tardoseicentesca cappella della Soledad a Gravedona, segnalato nel volume da Andrea Straffi, p. 184, che ci riporta ad una committenza “alta”: Giovanni Battista Giovannini, chirurgo personale di don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Filippo IV d’Asburgo e governatore dei Paesi Bassi.
Va osservato, a margine, che se l’attenzione dell’antropologo così come dello storico della Chiesa si sofferma sulla morfologia o sulle questioni normative, nondimeno l’unità del simulacro da vestire, almeno nella sua originaria formulazione, suggerisce una visione di sintesi, in cui anche il dato stilistico si impone come dato storico a tutti gli effetti. In altre parole se il fenomeno culturale e cultuale delle madonne da vestire è, come acutamente sottolinea Silvestrini, trasversale agli strati sociali, ovvero non riguarda solo i ceti popolari – e basterà richiamare a tal proposito la ricchezza materiale dei corredi tessili –, la qualità formale esibita da alcune delle statue illustrate nel volume dimostra che la venerazione dei simulacri vestiti era egualmente diffusa nei più alti ambienti culturali, che storicamente non sempre si identificano con la disponibilità dei mezzi economici. Un esempio utile a chiarire i termini di questa riflessione è offerto dalla statua della Vergine del Rosario realizzata nei primi del Settecento per la confraternita omonima di Delebio, consorzio cui afferivano membri eminenti del notabilato locale e che nello stesso torno d’anni aveva affidato a Giuseppe Antonio Petrini l’esecuzione delle sue prime raffinatissime opere, in un circuito di committenza cui non erano estranei influssi degli ambienti accademici e del pensiero illuminista di marca muratoriana. Per tali motivi l’effigie realizzata per i colti confratelli delebiesi è opera che si distingue nettamente dagli altri simulacri vestiti che pure sono tipologicamente affini, suggerendo un’attribuzione alla bottega dei Fantoni.
A ridosso della mostra sondriese il ritrovamento a Bormio di una Addolorata da vestire presso il locale Museo Civico ha posto in discussione la possibilità di una committenza nell’ambito del collegio gesuitico e delle fondazioni religiose connesse alla presenza della compagnia del Gesù, impegnata dalla fine del XVI secolo nelle cosiddette “missioni interne” nelle aree rurali e montane. Il ritrovamento, per cui si rimanda alla apposita pubblicazione per cura di Manuela Gasperi (La Madonna del sottotetto, Bormio 2012), ci conforta nell’idea che le linee della committenza e della produzione di questi simulacri corrano su piani estremamente variegati.
Se si bada a queste convergenze di committenza colta e forme di pietà (Gravedona, Delebio e Bormio), non stupisce verificare, come il volume consente a più riprese, quanti e quali scultori e botteghe fossero indifferentemente attive nella produzione sia di statue e intagli lignei “tradizionali” sia di simulacri da vestire: le botteghe Fantoni, Caniana e Sanz nel bergamasco, Andrea Albiolo, Giovan Battista del Piaz in Valtellina, solo per rimanere all’ambito alpino e prealpino, nonchè Giuseppe Antignati a Milano e la bottega dei Sala a Pavia per passare a contesti metropolitani.
L’immagine e la qualità formale dei simulacri da vestire non sono aspetti da relegare a secondaria importanza. Il caso offerto dall’osservatorio pavese è, in questa ottica, utile a determinare l’incidenza che i mutamenti del gusto ebbero sulla ricezione dei simulacri da vestire: in pieno Settecento essi furono oggetto di sostituzione, sebbene non in maniera capillare, proprio nelle loro funzioni processionali in favore di statue lignee interamente scolpite, dorate o policrome, mentre in epoca successiva, a metà dell’Ottocento, il vescovo Ramazzotti optò per la loro rimozione definitiva, proseguendo poi in questa sua campagna in terra veneta, quando divenne patriarca di Venezia precorrendo di decenni le iniziative di rimozione attuate a inizio Novecento in altre diocesi. Non è per altro fatto casuale che la progressiva dismissione di questi oggetti e delle pratiche di venerazione ad essi collegate si affermi, in forme diversificate, a partire dai primi decenni del XIX secolo quando di impone un’estetica del sacro di stampo purista che le autorità ecclesiastiche, più o meno consapevolmente, vollero imporre ai fedeli. In questo quadro si riflettono inoltre, a distanza di tempo, polemiche mai sopite sulla «decenza» di statue soggette a periodiche vestizioni/spoliazioni, polemiche solo di rado recepite a livello normativo ma ben attestate dalla documentazione di carattere evenemenziale. Nel 1618 a Pavia si invocava per la vestizione della Madonna una «privata retiratezza», ovvero si richiedeva che essa avvenisse in luogo deputato e riservato (per il documento si veda, in volume nel saggio di A. Casati, p. 235); così come poco prima, nel 1576, un visitatore apostolico precludeva alle monache di San Felice sempre a Pavia l’accesso alla cappella del Compianto per preservare una corretta distanza dai simulacri oggetto di venerazione (documento citato da R. Casciaro in Sculture lignee a Vigevano e in Lomellina, Vigevano 2007, nota 22 a p. 28).
Con l’avvento dell’età contemporanea, dal XIX in poi, mutando anche i costumi sociali e i modelli comportamentali di riferimento, si imponeva in termini esclusivi un’idea di sacro distante, regolato, privo di quella “confidenza” che le statue da vestire suggerivano nei fedeli così come nelle consorterie deputate alla loro pubblica adorazione.

Gianpaolo Angelini



Questa recensione riprende, con molti ampliamenti e nuove riflessioni, il testo apparso in “Critica d’arte”, UIA – Università Internazionale dell’Arte di Firenze, n. 47–48, a. 2012, pp. 57–59.




Data di pubblicazione: 27 gennaio 2014.

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