Il Monastero della Presentazione

Donne, vergini, monache nella Valtellina del Sei–Settecento

di Elisa Gusmeroli

Morbegno, Labos Editrice, 2004

La copertina del libro


Passo dopo passo siamo arrivati, finalmente, al terzo libro da collocare sullo scaffale della nostra biblioteca di casa, nel settore che abbiamo riservato ai libri che ci permettono di conoscere meglio i luoghi dove trascorriamo la maggior parte dei giorni della nostra vita. La successione di questi volumi non è indice di una graduatoria, rappresenta soltanto il segno di una scelta dovuta spesso al tempo che richiedono per una lettura attenta o una rilettura più approfondita. Siamo partiti con il dizionario dei dialetti della Val Tartano, opera di Remo Bracchi e di Giovanni Bianchini. Abbiamo proseguito,poi, con il castello di Domofole, scritto da Rita Pezzola. E questa è la volta di un’altra giovane studiosa, Elisa Gusmeroli. Con un lavoro dedicato alla storia straordinaria di un monastero femminile, sorto a Morbegno nella seconda metà del XVII secolo, a poco più di un decennio dalla fine di quella guerra trentennale che seminò di odio e morte l’intera Europa, compresa la Valtellina.

Sembra proprio che certe giornate, quando scende una pioggerellina fitta e sottile, abbiano il potere di insinuare nell’animo sensibile una dolce malinconia. Quel sentimento –al fondo, doloroso– che vorrebbe far tornare vivi, senza riuscirci, un quartiere una casa una strada. Così come erano cent’anni fa, così come appaiono fissati nelle vecchie cartoline grigiobianche o seppiate.
A due passi dalla maestosa chiesa di San Giovanni si erge un caseggiato massiccio, che occupa irregolarmente lo spazio di un quadrilatero nella vecchia Morbegno. Spazio ben delimitato dalla via Ninguarda, dalla via Fontana e dal vicolo Ninguarda. È uno di quegli angoli del centro storico dove i muri scrostati e le finestre malconce trasudano e conservano mille vite e mille storie. Storie intrecciate di fatica, cattiveria, fame, disperazione, amore, passione e anche –per fortuna– di qualche grande gioia. Chissà quante persone hanno abitato questi edifici nel corso degli anni! Anche senza voler risalire ai secoli più lontani, basterebbe ascoltare il racconto di qualche vecchio morbegnese –qualcuno nato intorno al 1920 tanto per intenderci– per vedere come d’incanto ripopolarsi quelle abitazioni, oggi in evidente stato di degrado e di abbandono. La via Fontana (dedicata al celebre notaio morbegnese Carlo Giacinto) ospitava un tempo il Ristorante Poli, con alloggio. Nel vicolo Ninguarda, invece, proprio sotto quel portico suggestivo –che rappresenta un unicum nel centro storico di Morbegno e permette di "inquadrare" in modo suggestivo la facciata del nostro bel San Giovanni– c’era la merceria delle Molinari, sorelle non sposate, le quali commerciavano in stoffe, tessuti, foderame e telerie. Breve è il tragitto del vicolo Ninguarda. E, per scendere lungo la serpentina della via omonima, si deve curvare a sinistra. Percorsi una decina di metri, ecco una rientranza dove appare una fontanella che ha conosciuto tempi migliori. Su questo lato si apriva la bottega di una famiglia Nani (ricordati come Vìscoli), che aggiustava orologi e sveglie. Ai nostri giorni potrebbe sembrare incredibile ma c’è stato un tempo, neanche tanto lontano, in cui si riparava tutto quello che oggi di regola si getta. Un poco più avanti c’era la falegnameria Bonmartini (venivano chiamati Buiatèi, dal comune di origine). E non era ancora finita. Ancora pochi metri e si incontrava la bottega dei Coppo, dove potevi acquistare e, soprattutto, far riparare pentole padelle e pignatte. Quanti ricordi (e quanta malinconia) per chi vive a Morbegno da almeno sessant’anni. Per non parlare, poi, fatti solo pochi passi, della leggendaria cantina Mangiarotti. La scritta è ancora leggibile su due lati, con accanto il nome evocatore di Casteggio, alto luogo dell’Oltrepo pavese dove si producono vini pregiati. Vi si entrava da via Ninguarda scendendo due gradini e, in un ambiente che ai nostri giorni definiremmo assai spartano –c’erano damigiane e botti a vista–, si beveva e si acquistava del buon vino. Di fronte alla nota "vineria", almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, un provvido vespasiano invitava alla bisogna … Ai nostri giorni piano piano (a tratti, come in un puzzle) questi angoli e gli immediati dintorni provano a rianimarsi, a rinascere. C’è da alcuni anni la bottega di Camilla, un’artista che decora con motivi delicati maioliche e pietre. Sul lato opposto, una cooperativa –la Labos, quella che stampa il Gazetìn– ha occupato uno spazio lasciato libero con vetrine dove espone libri e riviste. Certo, non torneranno più i Poli, i Vìscoli, le sorelle Molinari. Eppure, un restauro avvenuto nei paraggi in questi ultimi decenni fa ben sperare in una rinascita futura di tutta quest’area importante del centro storico.
Di fronte al caseggiato che ho appena descritto, nella via Fontana, si erge un altro edificio, massiccio e possente. Ma questo ha tutta un’altra storia. Niente commercianti, nessun artigiano, nessuna bottega. Invece, per quasi cento cinquant’anni ha ospitato, anzi è meglio dire ha celato, un esercito di monache di clausura. Oggi, dopo un buon restauro, ospita uffici e appartamenti. Di tanto in tanto bisogna ricordarlo: occorre un occhio esercitato e tanta pazienza per riconoscere le tracce del passato e della propria storia. Chi ha fretta, deve rassegnarsi a leggere soltanto la superficie, la quale mostra sovente nient’altro che sporcizia e degrado. Ma talvolta bastano alcuni piccoli segni per indirizzare la nostra attenzione verso un mondo scomparso. Per tornare al nostro percorso, chissà quante volte saremo passati da quelle parti. In via Ninguarda, poco dopo aver incrociato via Fontana, si possono notare due finestre massicce chiuse da sbarre di ferro, spesse come due grosse dita, che vanno a formare delle losanghe. Emergono tra le altre perché danno direttamente sulla via. Osservandole con attenzione, il nostro pensiero corre in modo spontaneo a una prigione, o in ogni caso a un luogo da difendere come una fortezza. Fuochino! Proprio qui sorgeva il Monastero della Presentazione. Un’oasi di preghiera e di penitenza all’interno del borgo di Morbegno. Basterebbe considerare la sua posizione per comprendere che la struttura era ritenuta inaccessibile. In caso contrario un monastero di clausura, una cittadella di vergini consacrate, sarebbe stato costruito in luogo isolato. Così come, d’altra parte, era avvenuto per i due conventi maschili di Morbegno. Quello dei domenicani a est e quello dei cappuccini a ovest, entrambi lontani dall’abitato.

In ogni caso, fino a pochi anni fa erano pochi coloro che a Morbegno passando davanti a quell’edificio austero e massiccio (piazza San Giovanni a Ovest, via Fontana a Sud, via Ninguarda a Est) avrebbero pensato che lì, proprio lì, fino a duecento anni prima viveva un microcosmo tutto al femminile. D’altro canto, se una giusta curiosità avesse spinto a cercare notizie e informazioni sul monastero delle agostiniane di Morbegno, un vuoto terribile e scoraggiante avrebbe fatto la sua comparsa. Una conferma di questo la offre quello strumento indispensabile per chiunque voglia intraprendere una ricerca storica sulla Valtellina, la cosiddetta "Valsecchi Ponteggia". Si tratta di una corposa bibliografia, un volume di più di cinquecento pagine, nel quale Laura Valsecchi Pontiggia, bibliotecaria e studiosa di grande valore, ha raccolto ed elencato in modo sistematico tutta la documentazione libraria sulla Valtellina dalle origini al 1977. Pur cercando con acribia, di questo monastero morbegnese non si trova la benché minima traccia. Il nostro monastero femminile sembra quasi aver subito una damnatio memoriae. E’ di questo parere anche Giulio Perotti, lo storico di Morbegno: «Nella memoria collettiva sembra che la primitiva destinazione dei fabbricati si sia cancellata, eppure, proprio fra queste mura, vissero diverse generazioni di religiose, in monastero che incise senza dubbio nella vita del paese».

Ma, come accade, talvolta è sufficiente aprire uno spiraglio per cambiare le carte in tavola. La lunga attesa si conclude all’inizio degli anni Novanta del XX secolo, quando Giulio Perotti pubblica dapprima (1991) sull’Archivio storico della diocesi di Como un saggio ben documentato (Il monastero claustrale femminile della Presentazione in Morbegno. 1675–1798) e poi un opuscolo di 20 pagine, uscito nel gennaio 1992 come supplemento delle «Vie del Bene». E tutto questo riporta l’attenzione su questa istituzione cittadina, ormai dimenticata.

Toccherà comunque a una giovane studiosa, Elisa Gusmeroli (anche lei come Rita Pezzola nutrita nel severo e fecondo allevamento culturale di don Saverio Xeres), il compito di far conoscere al vasto pubblico la storia nuova e avvincente di questo monastero femminile. È lei che decide di approfondire l’argomento costruendo una bella tesi per laurearsi in Lettere all’Università degli studi di Milano, sotto la guida di Claudia di Filippo Bareggi. Un lavoro che capita proprio a pennello per inaugurare nel 2000 una serie di conferenze, organizzate dalla Biblioteca Ezio Vanoni di Morbegno, dedicate alla cultura locale e raccolte sotto il titolo Le pagine della nostra storia. Infatti, quando, alle cinque della sera di sabato 18 novembre 2000, ha luogo la prima conferenza di storia locale, Elisa si sobbarca il compito di inaugurare quella serie di incontri che proseguono ancor oggi. La presenta Saverio Xeres, il direttore dell’Archivio storico della diocesi di Como, grande studioso e docente di storia della chiesa. La cronaca riferisce di un pubblico numeroso e attento, curioso di conoscere qualcosa di più sulla vicenda del monastero di Morbegno. Passano, comunque, ancora due anni prima della comparsa di un volume che permette a tutti di scandagliare le opere e i giorni del Monastero della Presentazione a Morbegno. E sono ben cinque gli anni trascorsi da quando Elisa Gusmeroli ha presentato la sua tesi, nell’anno accademico 1997–1998. Cinque anni per trasformare il proprio lavoro di laurea in un libro potrebbero sembrare troppi. Invece, rappresentano un periodo adeguato per la ‘costruzione’ di un volume di ricerca storica. La fretta e l’ansia di ‘vedersi stampati’, in questi casi, provocano quasi sempre risultati deludenti.

Dopo averlo letto ben due volte (la seconda per poter scrivere questo articoletto), conservo la convinzione che assai raramente ho affrontato un testo di storia locale scritto in modo così brillante. Elisa Gusmeroli dà una risposta a tutte le domande che uno si pone quando affronta la storia di un monastero. Come mai nasce un monastero femminile a Morbegno? Chi lo promuove? Come vivono le monache le loro giornate? E, infine, perché viene chiuso? …

Ma adesso parliamo del libro. Una sintetica e necessaria storia dei Grigioni segna l’inizio della narrazione. Poi ci si addentra nello scenario della storia della chiesa. In particolare vengono descritti i rapporti complessi tra gerarchie, sacerdoti, movimenti religiosi, il popolo dei fedeli, rapporti che Elisa illustra in modo magistrale. Uno dei periodi più complessi della nostra storia è quello delle due Riforme, quella luterana e quella tridentina. Eppure Elisa Gusmeroli, con alcune pennellate, ce ne offre un quadro chiaro. E potrebbero bastare alcuni brani per farci comprendere la grande capacità di sintesi, di cui la giovane studiosa offre in tutto il suo lavoro un’ampia prova. «Due importanti centri come Chiavenna e Teglio divennero sede di influenti comunità protestanti, tuttavia, nel complesso, le idee riformate si diffusero in gruppi assai ristretti, anche se disseminati sul territorio … Il ceto nobiliare, la cui ricchezza era basata soprattutto sulla proprietà terriera, aderì modestamente alla Riforma: preoccupato soprattutto di difendere le sue prerogative economiche ed ottenere un’affermazione politica, fece fronte comune con la Chiesa cattolica contro la dominazione grigiona, spinto quindi più da motivazioni materiali che spirituali. Il ceto popolare rimase invece tradizionalmente legato alle convinzioni cattoliche proprio in virtù di quella spiritualità, di quelle consuetudini, di quel modus vivendi che, ormai radicatosi nel territorio, aveva permeato di sé tutti gli aspetti della vita quotidiana … Fu soprattutto il nuovo ceto emergente, formato da mercanti, notai, giureconsulti, che aderì alla Riforma e appoggiò il governo grigione: si trattava di quella piccola nobiltà che aveva come fonte di reddito l’accesso alle classi subalterne dell’amministrazione locale (luogotenenti, notai, periti) oppure mercanti che traevano profitto dai commerci o dalla concessione di prestiti. … Di riforma il clero locale necessitava con estrema urgenza … Spesso i parroci locali associavano all’ignoranza culturale quella liturgica, derivandone un’assoluta incapacità di predicare, almeno come d’obbligo, la domenica».

Un altro aspetto che balza evidente è una grande capacità di divulgazione. Un sostantivo, quest’ultimo, che significa diffusione tra il popolo, uno stile che rivela desiderio di far conoscere a tutti quanto di solito viene riservato a pochi eletti. Poter leggere la storia scritta in questo modo diventa, tra l’altro, un vero piacere. Un grande, e insuperato, maestro nella divulgazione della storia della Valtellina è stato senza dubbio Bruno Credaro. Un profondo studioso, di matrice ghisleriana, che negli anni Cinquanta (quando un libro di storia veniva considerato degno soltanto se era scritto con un linguaggio accademico, meglio se un poco oscuro) ebbe l’ardire di pubblicare una serie di volumi (Morbegno, Chiavenna, Sondrio, Bormio, Tirano …) di indiscusso valore scientifico, scritti in un linguaggio limpido e affascinante. Il Credaro sa rinunciare ad esprimersi dalla cattedra –o comunque da un piedistallo– per divulgare la storia. Per riscoprire la sua prosa d’arte basta spalancare un suo libro a una pagina qualunque. Ad esempio, aprendo Morbegno –pubblicato nella collana della banca Piccolo Credito Valtellinese– a pagina 103 possiamo leggere « … Solo i valtellinesi più anziani ricordano come, ancora sul finire del secolo scorso [l’Ottocento, ndr], fossero frequenti nelle nostre selve le alte piante di noce che con i grossi tronchi biancheggianti portavano una nota chiara nei toni verde scuri dei castagneti; talora erano perfino più abbondanti degli stessi castagni. Allora il frutto non serviva molto per usi commestibili; solo per Sant’Antonio si preparava la copèta, il tipico dolce di miele cotto con noci tritate e steso poi tra due fogli di ostie. La maggior parte delle noci veniva torchiata e se ne cavava un olio che era quasi l’unico mezzo di illuminazione, versato a piccole dosi nella lüm a imberne il lucignolo. Ora la lüm dei nostri nonni se ne sta appesa nei salotti delle signore come una specie di curiosità storica; se ne sta spenta dopo aver portato la sua luce tranquilla nelle cantine, nelle stalle, nei solai, protetta la fiammella da una mano contro la brezza improvvisa. E insieme con la lüm sono spariti quasi del tutto anche i noci, insidiati dai mobilieri brianzoli che li comperavano a buon prezzo e fatti inutili dal sopravvenire delle candele steariche prima e poi della luce elettrica». Un’onda fresca di aggettivi appropriati (i grossi tronchi biancheggianti, la luce tranquilla –), la capacità di ricreare un grande affresco del tempo che fu. E la conoscenza della storia avviene con piacere. Leggendo il libro sul monastero della presentazione ho subito pensato che Bruno Credaro avesse trovato in Elisa Gusmeroli una brillante allieva, una degna discendente. Ben al di là delle considerazioni stilistiche personali, me ne ha dato conferma Saverio Xeres, il quale nella prefazione, dopo aver affermato che, con questo libro, Elisa Gusmeroli «svolge il proprio lavoro egregiamente … rigorosa nel ricorrere alla documentazione e sanamente spregiudicata nell’analizzarla» aggiunge un’ulteriore pennellata sostenendo che una «simile capacità di leggere le realtà locali, se non è usuale, nella storiografia valtellinese, neppure è casuale».

Il volume si snoda suddiviso in due grandi parti. La prima, come ho già accennato sopra, delinea una bella cornice storica. È la seconda parte, però, che rappresenta il corpus dello studio: origini e vita del monastero. Bisogna quindi arrivare a pagina 53 per trovare l’inizio della grande avventura di Margherita Fontana, una pia giovane di Bema. Un’avventura che porterà alla nascita del monastero. Ma non voglio continuare ad annoiare i miei due lettori con una descrizione troppo minuziosa del volume. Basti dire che questo è uno straordinario libro di storia, da centellinare pagina dopo pagina. Sarà proprio questa lettura che ci permetterà di ammirare il talento narrativo (oltre alla dote di storica) di Elisa Gusmeroli. Ecco, quindi, soltanto alcune indicazioni utili al più per stuzzicare la curiosità. Tra le pagine troviamo, ad esempio, gli elenchi delle monache. Da questi veniamo a scoprire che il Monastero ospitava i grossi nomi della nobiltà locale (Paravicini e Castelli Sannazzaro per tutti). Scopriamo inoltre cosa potevano leggere, a quali sorgenti attingevano per la loro formazione culturale e religiosa. Cosa leggevano? Il monastero era arrivato a possedere una biblioteca con 879 volumi. Non male per l’epoca e per la situazione. Scandagliandone l’elenco dettagliato in una «notta delli libri del monastero» non incontriamo nessuna sorpresa. Certo, si tratta di libri tutti a carattere religioso (dall’Arte d’amar Dio alla Dottrina christiana del cardinale Bellarmino, dall’Imitatione di Cristo alla Vita del beato Luigi Gonzaga), e che testimoniano in ogni caso «la profonda penetrazione della riforma post–tridentina» (p. 137). Va ricordato, inoltre, che la biblioteca del monastero non aveva altro scopo che quello di aiutare il dialogo solitario della monaca con Dio (p. 135–136). Per di più, accanto ai libri, figuravano tra gli arredi collocati in ogni stanza «quadri grandi, mezzani o piccoli». Anche questi, tutti, naturalmente, di soggetto religioso. Il pensiero corre subito alle celle affrescate dal Beato Angelico nel Convento di San Marco a Firenze. Sono immagini che ora noi osserviamo, pieni di ammirazione per la loro bellezza. Invece, il loro compito era quello di stimolare la spiritualitàdei religiosi e delle religiose in ogni momento della giornata. Dovevano indurre una monaca a ‘pie riflessioni’, a tenere costantemente fisso il pensiero in Dio. E pagina dopo pagina la «vicenda di un piccolo gruppo di donne che, nella prima metà del Seicento, dal villaggio montano di Bema, sopra Morbegno, scendono in quel borgo fervido di commerci e popolato di famiglie illustri» colpisce il nostro interesse e ci appassiona. Alla fine della lettura, si prova vivo il desiderio di tornare a fare una visita discreta (siamo in una proprietà privata) a quel luogo che il libro di Elisa Gusmeroli ci ha reso familiare. E pensare che per tanto tempo vi siamo passati accanto quasi quotidianamente senza prestarvi alcuna attenzione. Oggi –dopo tanti anni di trascuratezza e di abbandono– l’intero edificio è stato sottoposto a una grande operazione di restauro. Questo ne ha segnato la rinascita, una rinascita moderna, che ha visto l’antico monastero diventare sede di begli appartamenti e studi professionali. Una nuova vita, un modo per continuare ad esistere nel tempo, ma anche un segno di speranza.

E ora, un piccolo suggerimento. In uno di questi giorni, con la discrezione dovuta al luogo e ai nuovi proprietari, si può penetrarvi lentamente, da via Ninguarda. Osservate le due finestre dall’inferriata poderosa, superato l’alto portale quasi sempre aperto, si procede entrando in un passaggio alto e stretto. Dopo pochi passi noteremo sulla destra un cupo corridoio con volte unghiate. Può bastare questo a ricordarci che qui c’era un monastero. Pochi passi ancora e si esce all’aria aperta. Proprio qui, subito, guardando verso l’alto, si ha lo scorcio più straordinario della facciata della nostra chiesa parrocchiale. Una fuga di linee spezzate, tracciate nel granito, che lascia sbalorditi.

Nel frattempo Elisa Gusmeroli (che tra l’altro, fa la mamma e l’insegnante) è riuscita ad offrirci altre prove di bravura, che la confermano studiosa di grande valore. Mi piace segnalare, in queste ultime righe, due saggi ben scritti e documentati, apparsi in altrettanti volumi editi dalla Banca di Valle Camonica. Il primo (2005) riguarda le presenze monastiche in Valtellina tra XI e XIII secolo, mentre il secondo (2006) affronta la storia delle antiche pievi della Valtellina e della Valchiavenna. Altre due tappe del percorso iniziale di una studiosa che, come ci aveva già avvertito Saverio Xeres, sa svolgere «il proprio lavoro egregiamente, con intuito tutto femminile e una tenacia tutta valtellinese».

Renzo Fallati

torna sutorna su