Uno sguardo dal castello di Domofole

Materiali e riflessioni per una storia della bassa Valtellina nel medioevo (sec. IX–XII)

di Rita Pezzola

fotografie di Vincenzo Martegani

Morbegno, Comunità Montana Valtellina di Morbegno, 2005.

La copertina del libro


Oggi la via Ghisla, a Morbegno, è una strada asfaltata che, quasi la continuazione della via Margna, collega –snodandosi decisa verso Nord– la Statale 38 alla via V Alpini. Il suo percorso irregolare ne tradisce le origini. Esaminando una vecchia fotografia del 1908 per cercare le sue tracce, la si ritrova come una delle tante stradicciole di campagna, che solca soprattutto prati, costeggiata di tanto in tanto da rari nuclei di abitazioni contadine. I casi della vita mi hanno accompagnato quasi trent’anni fa ad abitare proprio in via Ghisla. Per la precisione in quella parte dove un tempo vivevano e lavoravano i Quagèi (soprannome di una delle famiglie Tacchini di Morbegno). Tuttavia, per non fuorviare il lettore, mi fermerò qui con le note autobiografiche.
Ghisla. Al solito, i toponimi, i nomi di luogo, hanno sempre solleticato e pungolato la mia curiosità. Cosa potrà voler dire? Quale sarà stata l’origine di questo nome? Ghisla … E, cerca che ti cerca, un bel giorno trovo finalmente la risposta su uno dei volumi che ho studiato con passione per conoscere un po’ più a fondo la storia e la cultura del luogo dove vivo. Infatti, troppa grazia! (è proprio il caso di dirlo?), uno dei nostri storici più valorosi, Giustino Renato Orsini, nella sua Storia di Morbegno –testo che vide la luce nel 1959, ma che resta ancora ai nostri giorni un’importante opera di consultazione– sembra porgermi la soluzione dell’enigma. Basta andare a pagina 41 e l’ arcano è svelato, senza ombra di dubbio: «ad un poetico nome di donna longobarda o carolingia ci richiama la via Gisla [sic], poco sotto la provinciale». Del refuso –Gisla per Ghisla– l’Orsini non ha certamente alcuna colpa. Di più, l’ipotesi peregrina dell’origine del toponimo sarebbe potuta passare quasi inosservata. Un momento di stanchezza, sempre in agguato per tutti. Ahimè! Giustino Renato Orsini, invece, persevera e –a pagina 126– per non lasciarci dubbi residui riafferma che: «all’epoca carolingia risale il nome …della via Ghisla». A questo punto lo studioso ha tutto il diritto di chiedersi se il libro che ha davanti sia il lavoro di uno storico serio –è l’Orsini, perbacco– oppure non sia l’opera di un volonteroso dilettante di cose storiche. La tradizione e le leggende costituiscono un bagaglio importante per la cultura di una popolazione, ma la storia è un’altra cosa. È vero, negli anni Cinquanta del secolo scorso non esistevano ancora tutti gli strumenti per la ricerca storica che oggi, soprattutto attraverso internet, abbiamo facilmente a disposizione. Ma è altrettanto vero che, neppure dieci anni più tardi, proprio nel mitizzato 1968, un Ettore Mazzali affermava in una delle primissime pagine di quella che resta ancor oggi la più importante storia generale della provincia di Sondrio (Storia della Valtellina e della Valchiavenna, di Ettore Mazzali e Giulio Spini, in tre volumi pubblicati tra il 1968 e il 1973): «il severo ufficio dello storico è quello di essere interprete e filologo di documenti certi» (p. 9). E qui inciampano rovinosamente la suggestiva donna longobarda insieme a quella carolingia. Voglio, comunque, tranquillizzare immediatamente i miei due lettori. Qualche colpa (e chi non ne commette?, avanti con la prima pietra!) non deve oscurare tutto il prezioso lavoro che un appassionato studioso della storia locale come Giustino Renato Orsini (1883–1964) ha svolto durante tutta la sua lunga vita. La sua Storia di Morbegno resta in ogni caso una pietra angolare negli studi locali. Certo, anche una pietra ogni tanto si ritrova con qualche crepa. L’importante è individuarla, senza allargarla pericolosamente, divulgando ad esempio come dati storici quelle che sono delle semplici congetture. Per concludere, sono altrettanto sicuro che se questo autorevole studioso avesse potuto consultare il volume che presenterò tra poche righe, non si sarebbe lanciato in deduzioni simpaticamente strampalate.

Sono un bibliotecario e ricevo regolarmente inviti alla presentazione di libri. Quando posso, partecipo volentieri. Conoscere di persona gli studiosi che pubblicano le loro opere è, di solito, un’esperienza utile e stimolante. Nell’ottobre del 2005 ho ricevuto un invito, al quale non avrei rinunciato per niente al mondo. Annunciava l’uscita di un volume scritto da Rita Pezzola, una giovane e brillante studiosa che vive a Morbegno. E la presentazione ufficiale sarebbe stata fatta da mons. Saverio Xeres, maestro impareggiabile nel campo degli studi storici. Quindi, avevo due solidi motivi per non mancare a questo appuntamento. E non me ne sono certo pentito. Al termine dell’incontro pubblico, incontro che aveva stuzzicato per più di una ragione la mia curiosità, mi sono ritrovato fra le mani un bel libro di 246 pagine (Uno sguardo dal castello di Domofole: materiali e riflessioni per una storia della bassa Valtellina nel medioevo: sec. IX–XII, di Rita Pezzola; con fotografie di Vincenzo Martegani, edito dalla Comunità Montana Valtellina di Morbegno, 2005).
In copertina, una foto magistrale (è di Vincenzo Martegani) mette in primo piano i ruderi del castello, e contemporaneamente obbliga lo sguardo a correre subito fino al Lago di Como, chiuso in basso dalle Alpi Lepontine ma ancora aperto in alto da un cielo vivo di nubi. A sinistra, in secondo piano, imponente, il Monte Legnone, dall’alto dei suoi 2610 metri, sembra osservare impassibile la scena, evidenziando nel fondovalle i quattro campanili, in successione, di Piagno, Rogolo, Andalo e Delebio.
Lo apro, lo sfoglio, do una prima occhiata all’indice generale e all’indice analitico, scorro la bibliografia, controllo le immagini. E poi, piano piano, inizio a leggerlo. A mano a mano che le pagine scorrono, mi trovo sempre di più immerso in un’opera che mi affascina, mi prende e non mi lascia tregua. Sono costretto a leggerla in pochi giorni.

D’accordo: il castello di Domofole, i Vicedomini, la bassa Valtellina; i quattro secoli annunciati nel titolo (dall’800 al 1200), secoli finora poco trattati e soprattutto ancor meno approfonditi. Tutto interessante. Ma è alla fine della lettura, dopo aver centellinato frase dopo frase, capitolo dopo capitolo, che scopro dove sta la seduzione di questo libro. Al di là dell’interesse che può suscitare il monumento svelato o la famiglia investigata, quello che conta –e che salta agli occhi– è il metodo.
Questo libro insegna a studiare un monumento storico. E, in modo semplice e chiaro, insegna a ‘raccontarlo’.
Rita Pezzola ci conduce, prendendoci per mano con dolce fermezza, in un mondo lontano mille anni. E questo mondo ce lo presenta da molteplici punti di vista, illuminandocene le tante sfaccettature.
Una cosa che colpisce mentre si prosegue nella lettura è che questa giovane studiosa cerca di convincere che la ricerca storica è un’impresa seria e impegnativa, ma che deve diventare soprattutto una bella avventura, da vivere con entusiasmo. È proprio l’entusiasmo l’accordo musicale che ci accompagna come sottofondo in ciascuna delle pagine del libro.
Inutile dire che bisogna lasciarsi coinvolgere in questa avventura indossando un equipaggiamento adeguato. Il pressappochismo e la superficialità vanno abbandonati al campo base. Allora si può partire per la bella avventura della storia. Un sano rigore filologico deve trovare il posto principale nello zaino del ricercatore. Rita Pezzola, tra l’altro, dimostra egregiamente che il rigore filologico non è per nulla pedanteria. Al contrario si tratta semplicemente di una serena disposizione d’animo, pronta e preparata ad ascoltare i testi e, soprattutto, a non far dir loro ciò che risulta più comodo.

Il buon giorno si vede dal mattino, recita un vecchio adagio. Per Rita Pezzola quel mattino era già apparso luminoso due anni prima. Nel 2003, aveva pubblicato Et in arca posui: scritture della confraternita della Beata Vergine Assunta di Morbegno, diocesi di Como. Un’indagine accurata e corposa, più di 350 pagine, condotta per donarci un affresco completo di una confraternita, ma soprattutto per farci entrare nelle carte del suo archivio, trascrivendo con pazienza e amore certosini tutte le pergamene. Un lavoro che metteva già in evidenza insolite doti per una giovane studiosa appena ventinovenne. Sono bastati due anni per avere, di queste doti, una sicura conferma. Uno sguardo dal castello di Domofole, infatti, è diventato, a buon diritto il secondo dei magnifici quindici.

Dopo aver collocato saldamente sul palchetto della nostra biblioteca privata il dizionario dei dialetti della Val Tartano, scritto da Giovanni Bianchini e Remo Bracchi, con questo nuovo volume da un trampolino linguistico ci possiamo tuffare felici nella storia. E per noi che viviamo in Bassa Valtellina, nella nostra storia. A scanso di equivoci, qualcuno potrebbe essere tentato di pensare che in fin dei conti selezionare un drappello di libri di cultura locale non sia poi impresa così impegnativa. Non saranno poi così tanti i volumi in questione. Visto inoltre che il programma, più o meno, è quello di scegliere delle opere cogliendole tra quelle uscite in questi ultimi trentacinque anni, dal 1970 in poi. Ahimé, i volumi tra cui addentrarsi sono qualche centinaio. Ecco uno dei validi motivi che mi costringe a far trascorrere un po’ di tempo tra un libro e l’altro. Ma, oltre a questa, la ragione principale è che mi sono imposto di rileggere ben bene i prescelti, centellinandoli e annotandoli. Mi serve un po’ di pazienza. Che è poi la stessa che chiedo ai miei due fedeli lettori.

È il momento, adesso, di cercare nelle prossime righe di farvi capire perché questo libro mi ha affascinato.
E partiamo dall’inizio. Non è un modo di dire. Vediamo proprio la prima pagina e le prime righe.
Finalmente: per un libro di storia un incipit come si deve. Una partenza alla Schuhmacher dei tempi d’oro. Il ritmo è quello giusto. Ascoltiamolo: «Il castello di Domofole sorge sulla montagna che sovrasta Traona: la mole della sua torre fa spicco tra il verde della boscaglia, vicino al Vallone. L’antico edificio fa parte del nostro paesaggio: per molti è una abitudine, quando si transita sulla strada statale nei pressi di Cosio, ricercarne sulla montagna la presenza ed associarne la vista a quella del campanile di San Giovanni di Bioggio, che sorge non distante, dall’altra parte del Vallone. Ma se ci spingiamo al di là del suo “essere presente”, cogliamo che dietro al castello di Domofole c’è una storia, una storia lunga almeno mille anni. Il desiderio di conoscere e di capire si accende». [p. 19].
Un inizio da thriller, verrebbe quasi da dire. In ogni caso, un ottimo inizio.

L’esposizione si dipana poi seguendo una struttura che più classica non potrebbe essere. “Omne trinum est perfectum” (tutto ciò che è composto da tre parti è perfetto) diceva una massima medievale, tanto per restare nel periodo studiato. E appunto tre sono i capitoli che formano l’impalcatura del libro. Ma vediamoli più da vicino.
Il primo capitolo descrive ed esamina a fondo, in 61 pagine, il castello di Domofole nel Medioevo. 40 pagine sono poi dedicate ai protagonisti: i Vicedomini di Como, signori del castello. Il terzo capitolo, quello più ampio (77 pagine) affronta, con dovizia di documenti, lo scenario geografico: la bassa Valtellina, nei secoli IX–XI.
Ma l’avventura della scoperta è arricchita costantemente da una serie di rimandi, che ci costringono a ritornare su sentieri già percorsi, per soffermarci con nuova attenzione su panorami che credevamo di aver già osservato adeguatamente. È in questo momento che, di solito, avvengono le scoperte più eccitanti.

La nostra studiosa ci strappa dalla contemplazione per mostrarci, poi, l’intero cantiere, anzi per restare nel tema dell’Omne trinum … i tre cantieri che ha voluto inaugurare per dare il via ai lavori dedicati alla scoperta del castello di Domofole. Il cantiere che ci appare subito evidente, anche se ai nostri occhi si tratta in fin dei conti soltanto di un rudere, è quello dello scavo archeologico. Questo saremmo riusciti a vederlo anche da soli.
Ma per il secondo –quello dove si lavora con lena a cercare, trascrivere e interpretare carte d’archivio– la nostra guida diventa indispensabile.
Dell’ultimo cantiere Rita Pezzola ci parla con speranza ed entusiasmo. È quello impiantato all’interno del mondo della scuola. Senza questo anche gli altri due non potrebbero durare a lungo. Perché è dalla scuola che deve partire la scoperta delle proprie radici. Resta questo il cantiere basilare. Non per nulla il libro di cui parliamo rappresenta uno strumento di studio e di scoperta essenziale per gli insegnanti e per gli studenti universitari.

Dopo una prima visita in questi luoghi dove ferve il lavoro di scavo, di ricerca e di apprendimento vorrei descrivere alcuni punti che hanno colpito il mio interesse e la mia attenzione. Tante volte avevo sentito parlare del castello di Domofole come del ‘castello della regina’.
A dire il vero, erano ben tre le regine che si contendevano il posto nella tradizione. La prima è Teodolinda (VI secolo), poi viene Gundeberga (VII secolo), entrambe longobarde. Infine viene fatta entrare in scena anche Adelaide (X secolo), giovane vedova di Lotario, re d’Italia.
Allora, quale sarà la regina legata storicamente al castello di Domofole? Il nostro Rinaldo Rapella (1901–1980) –che ho avuto la grande fortuna di conoscere–, nelle sue conversazioni tra storia e leggenda, scritte con stile brioso e accattivante su Le Vie del Bene (mensile della parrocchia di Morbegno), se la cava alla grande e, giustamente perplesso, decide alla fine di lasciare la scelta al lettore.
Rita Pezzola invece, da storica provetta, non ci lascia nel dubbio. Dopo averci segnalato che fin dal Seicento la tradizione leggendaria colloca volta a volta nel castello di Domofole una regina, scegliendola fra le tre, e che Teodolinda è la più citata, la nostra giovane studiosa (p. 46–47) non ci lascia dubbi e chiude la partita. Le sue ricerche, attivate soprattutto nel secondo cantiere (quello archivistico), le permettono di emettere un preciso verdetto, che oso tradurre in un linguaggio diretto: dal punto di vista storico sono tutte baggianate. Mai stata una di queste regine, e tanto meno altri personaggi di gran nome, a Domofole. Ma leggiamo la sentenza dalla sua viva penna: «Queste leggende, che nascono dalle suggestioni evocate dagli antichi ruderi o da errate interpretazioni di passi di cronache, non hanno alcun fondamento documentario».

Abbandonate le tre regine, passiamo a un altro punto che ci incuriosisce. Domofole. Quale sarà l’origine di questo nome misterioso? Anche questa volta fa capolino il nostro Orsini che ci dà una risposta, buttandosi spensierato, e anche questa volta senza paracadute. (Come? Un paracadute? … No, non sto giocando con le parole; un piccolo paracadute avrebbe potuto essere una frase del tipo ‘Si dice …; Forse …; La tradizione afferma …’). Invece, ecco il suo giudizio. Dietro questo nome –Domofole– si intravede «qualcuno che doveva domare le folle dei sudditi riottosi». Per carità di patria non commento questa ipotesi apparentemente suggestiva. Anche se il primo moto dell’animo mi costringe ancora una volta a sottoporvi d’acchito un piccolo elenco di toponimi che dovrebbero farci riflettere almeno un istante prima di buttarci a discettare di etimologie (Bellano, Lecco, Orino, Colico …). Ma allora, dove possiamo trovare le radici di Domofole?
Rita Pezzola, dopo aver scavato pazientemente con la sua zappetta, dà un occhiata al terreno e alle radici che ha liberato dalla terra, allarga le braccia e sussurra: «Il problema interpretativo … rimane aperto e disancorato da fonti documentarie che ne consentano una risoluzione certa». In parole povere: non siamo in grado di offrire una risposta.
Signori, questa è la storia! Il sano dubbio dovrebbe farci evitare per lo meno gli strafalcioni più marchiani. Chi ama la storia deve soprattutto voler tenere ben distinta questa dal folclore e dalla leggenda. Nessun equivoco. Ogni campo ha la sua dignità. Guai però a quando si confonde l’acqua con il vino e la leggenda con la storia. Non è certo un sintomo di conoscenza della storia se in questo 2006 molti considerano Il codice da Vinci uno stupendo libro di storia, rivelatore (finalmente!) di trame segrete, occultate da poteri onnipotenti e intoccabili. Invece di considerarlo per quello che è: un thriller così così. Ma vogliamo provare, come thriller, a metterlo a paragone con Delitto di mezza estate di Henning Mankel?

Sono trascorsi sedici anni, da quando, un bel giorno, mi sono imbattuto in una decina di pagine, all’apparenza niente più di un brevissimo saggio, che si confondeva agevolmente con gli altri contributi che ogni anno vengono pubblicati su quello che resta uno strumento fondamentale per la conoscenza della storia in provincia di Sondrio: il Bollettino della Società storica valtellinese. Per l’esattezza era il numero 43 del 1990.
Queste dieci paginette, redatte con passione da Saverio Xeres, hanno corso il rischio di passare quasi inosservate. Visto che si trovano sotto un titolo che sembrerebbe parlare di tutt’altro o per lo meno d’altro (Riflessioni storiche sugli archivi ecclesiastici di Grosio, Grosotto e Mazzo) avrebbero potuto incuriosire al massimo gli addetti ai lavori. Invece, a mio parere, questo breve saggio ha rappresentato un vero e proprio Manifesto per la storiografia locale.
Lo Xeres, oggi il più autorevole tra gli storici valtellinesi, non si limita ad affermare che «L’abilità dello storicoconsiste … nel porre domande significative ai documenti. …». È lo stesso concetto espresso dal Mazzali nel 1968. No, egli si spinge ben oltre. «Si tratta, insomma, di fare la storia possibile, l’unica, cioè, non infedele al proprio nome. E questo significa fare tesoro della documentazione che abbiamo, la quale non è, qualitativamente parlando, né di meno né di più di quella su cui si costruisce la cosiddetta ‘grande storia’. È semplicemente diversa. … Tante volte, invece, troppe volte, la storia locale tende a riprodurre in piccolo –vorrei dire, a ‘scimmiottare’– la storiografia dei grandi personaggi e dei grandi eventi, cercando anche tra noi il ‘personaggio’ –se proprio non ‘grande’, certo, come si dice in questi casi, non ultimo sulla scena della storia; o l’edificio –ancora come si usa dire– non inferiore alla cattedrale o al palazzo di città; o la vicenda che in qualche modo ci riservi un posticino, anche solo di comparsa, sulla ribalta della storia. La storia locale va concepita, invece, come la ricostruzione di ciò che alla storia generale, proprio in quanto generale, non è possibile».
E per non lasciare dubbi conclude così: «Il dedicarci maggiormente al riordinamento e alla salvaguardia del materiale documentario sparso nella valle credo sia una scelta ad un tempo più giustamente ambiziosa e più sapientemente modesta delle fatiche storiografiche nelle quali solitamente ci impegniamo».
Ebbene, già nel 1990 Saverio Xeres affermava inequivocabilmente la necessità, anzi, la priorità dell’indagine documentaria nella ricostruzione storiografica. «I libri di storia passano e –salvo eccezioni– assai velocemente; i documenti rimangono, anzi sono essi a rimettere sempre di nuovo in discussione le ricostruzioni storiche spesso affrettate».

Il lavoro di Rita Pezzola è un figlio maturo di questo Manifesto del 1990. Non ci porta alla corte di Carlo Magno o del Barbarossa, cercando di farli soggiornare, riposare o svernare in qualche modo a Domofole. Il fascino della ricerca storica la costringe, invece, ad aprire spiragli su temi che la storia locale offre e che possono essere argomento di grande interesse per tutti.
Ad esempio, la storia dei cognomi (che Rita preferisce definire come «voci cognominali»).
E poi, la scoperta, tanto affascinante quanto inaspettata, del significato del nome del comune di Cosio. Scoperta basata sull’interpretazione di documenti scritti, non su sogni o fantasie. Voglio lasciarvi un minimo di curiosità. D’accordo qui c’è un pizzico di sadismo. Vi offro però una bussola sicura. Per scoprire il significato del toponimo Cosio basta correre a pagina 144. Ma siamo ormai alla fine.

Un volume come questo sarebbe zoppo se fosse privo di un indice analitico, un elenco in ordine alfabetico dei nomi di luogo e dei nomi di persona. È questo lo strumento che permette al lettore e, ancor di più allo studioso, di reperire velocemente i dati che gli servono. Nelle opere di storia, in particolare quelle ricche di documenti, la mancanza dell’indice analitico è senza dubbio colpa grave. Non permettendo confronti e verifiche immediate, posso affermare che ne riducono l’utilità anche del 90%.

Motivi per invitarvi a leggere questo libro credo di averne già evidenziati in numero adeguato. Ma, alla fine, voglio ricordare la ragion predominante: il metodo. Come ho detto, è un libro ‘bello da leggere’, ma che, in primis, presenta un metodo di ricerca storica.
Ecco perché sono convinto che si tratta di un’opera che ogni insegnante –a partire da chi lavora nelle scuole elementari– dovrebbe leggere e assimilare, soprattutto, per conoscere un frammento interessante della nostra storia. Ma in particolar modo dovrebbe tenerlo come guida sicura, da consultare prima di intraprendere o di far eseguire una ricerca di storia locale.

Ho riletto il mio articolo e sottoscrivo ogni parola e ogni considerazione che mi sono uscite dalla penna. Qualcuno potrebbe pensare che, forse, qualche volta nei miei giudizi sono sconfinato nell’iperbole, oppure ho almeno un poco esagerato. Assolutamente no! E –mi piace usarla come pezza d’appoggio– una conferma l’ho trovata all’interno della prefazione, alla pagina 11.
Saverio Xeres –che mi onora con la sua l’amicizia (e confesso che mi imbarazza un po’ lodare un amico), ma che conosco come maestro severo e autorevole negli studi storici e pungolo stimolatore di giovani energie– definisce Rita Pezzola una «ancor giovane e già matura studiosa». E questo corrisponde a un nastrino della legion d’onore da sfoggiare sul petto con orgoglio.

Per concludere, non voglio però lasciarvi con un ricordo negativo di Giustino Renato Orsini, un autore che tanto ha amato la Valtellina e la sua storia. I suoi scritti vanno letti e studiati. Per quanto concerne gli sbandamenti –di solito lo colpiscono quando si addentra nei vari e pericolosi sentieri della foresta dell’etimologia– basta semplicemente prestare un po’ di attenzione. Del resto –e questo vale anche per tutto quello che dico e scrivo– possiamo far riferimento all’affermazione di Plinio il Vecchio, lo scienziato morto nell’agosto del 79 d.C. durante l’eruzione del Vesuvio (tra l’altro, possiamo ammirarne una statua sulla stupenda facciata del duomo di Como, a sinistra di chi osserva). «Nemo mortalium omnibus horis sapit». Nessun uomo è saggio a tutte le ore.

Renzo Fallati


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